Prendendo spunto dalle dichiarazioni dell’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon, che di recente ha reso pubblico il suo dissenso nei confronti di una decisione della Corte costituzionale di cui era membro, il professor Di Federico, in un articolo apparso sull’“Unità” il 5 gennaio scorso, invita la Corte ad aprirsi, non come ha fatto ampiamente negli ultimi anni, anche a costo di critiche, ma introducendo la pubblicazione di eventuali opinioni dissenzienti dei suoi membri.
Non è corretto affermare che la Corte che siede nel Palazzo della Consulta presenta le sue sentenze “come fossero unanimi”. Esse sono invece espressione di un organo collegiale che, a differenza di un Parlamento, produce decisioni one voice, vale a dire come risultato di una deliberazione, che può essere unanime o di maggioranza, ma è sempre il risultato dello sforzo necessario di trovare un possibile punto di accordo e di equilibrio fra le posizioni inevitabilmente diverse dei membri che compongono il collegio. Questo è evidente se si tiene conto del fatto che capita – di rado ma capita – che il membro della Corte che redige la sentenza sulla base del dibattito e del compromesso che si è venuto a creare, e non della sua personale opinione, non sia, come si legge negli atti pubblicati, lo stesso giudice che era stato incaricato dal presidente del collegio di presentare il caso ai colleghi e redigere le conclusioni della deliberazione comune. Segno evidente di un disaccordo di quest'ultimo (il giudice relatore) nei confronti della opinione cui è giunta la maggioranza. Di Federico sostiene, come hanno fatto già altri in passato, che le decisioni collegiali, one voice, che vengono prodotte dalla Corte hanno il torto di far considerare corresponsabili i giudici che erano in disaccordo con la sentenza prodotta. Inoltre, che sarebbe protettivo della istituzione consentire la pubblicazione del dissenso. Questo viene sostenuto perché la pubblicazione di una opinione diversa da quella della maggioranza, anche ampia, avrebbe la funzione di rendere i membri della Corte costituzionale più soggetti ad autocontrollo, vale a dire a non abusare del loro potere.
Se si riflette su tale argomento si può giungere facilmente a una conclusione opposta. La lunga esperienza della Corte suprema americana della pratica delle dissenting opinions (ce ne possono essere più di una), ma anche delle opinioni concorrenti, che presentano ragioni diverse circa il dispositivo della sentenza, mostra innanzitutto pochissimo autocontrollo da parte della Supreme Court, come sa bene chiunque abbia seguito le vicende di questa potentissima istituzione, e dove la maggioranza impone quasi sistematicamente alla minoranza la sua volontà, rifiutandosi di comportarsi come un organo collegiale. La maggioranza ignora le opinioni dei giudici della minoranza poiché essi possono sfogarsi con la pubblicazione delle loro opinioni dissenzienti, che hanno nessun valore legale e un debolissimo valore di precedente, poiché il precedente della maggioranza è evidentemente preminente.
La pratica del dissent ha trasformato la Corte più alta del sistema giudiziario statunitense in un micro-Parlamento, dove la pratica del compromesso è marginalizzata, mentre dovrebbe svolgere un ruolo centrale in un organo che non essendo responsabile dinanzi al suffragio (vulgo democratico – diceva Norberto Bobbio) deve cercare di tenere insieme i diversi punti di vista e orientamenti valoriali e interpretativi della Costituzione dei suoi membri. L’assenza di opinioni separate obbliga, invece, il collegio a fare uno sforzo massimo al fine di giungere ad una decisione il più possibile condivisa. La pratica del dissent è un incentivo a chiudere lo spazio della deliberazione e del compromesso. Quando la maggioranza non può dire alla minoranza, come in un organo elettivo: decidiamo noi perché avete perso le elezioni, lo sforzo per giungere a una posizione condivisa si moltiplica. A contrario, nella Corte americana i dissenzienti impotenti a spingere a concessioni la maggioranza, ormai partigiana e prepotente, invece di rivolgersi ai colleghi sordi alle loro obiezioni, si rivolgono ad un pubblico esterno. Invece di deliberare insieme agli altri, they teach from the bench, usando la Corte come una cattedra dalla quale rivolgendosi all’esterno, in particolare ai giuristi, creando scuole di pensiero partigiane, come hanno fatto per anni Antonin Scalia e Ruth B. Ginsburg.
Qualche anno fa, il giudice costituzionale Valerio Onida in occasione di uno dei ricorrenti dibattiti sul tema propose il dissent anonimo, ma questo non andava bene a nessuno dei suoi colleghi, soprattutto a chi non esce troppo anziano dalla Corte. Bisogna osservare che in America, almeno per quanto riguarda la Corte suprema il dissent non può servire a crearsi un profilo pubblico utile per la eventuale carriera alla fine del mandato. I giudici supremi in America – dove la speranza di vita quando fu scritta la costituzione era di 50 anni – sono ancor oggi nominati a vita. Per proteggerci dalle ambizioni personali non possiamo nominare i giudici costituzionali a vita, ora che, per fortuna, muoiono molto molto più tardi; questo sì sarebbe incompatibile con un governo rappresentativo.
Si dirà che potremmo avere una Corte costituzionale come quella di Karlsruhe dove il dissent, introdotto a un certo punto (sotto l’influenza della cultura giuridica americana, non era infatti previsto dalla Legge fondamentale del 1949), non è adoperato che di rado, a differenza degli Stati Uniti. Ma vi è una debolissima evidenza che le istituzioni tedesche possano funzionare come le nostre.
Chi accetta di fare il giudice costituzionale in Italia deve accettare che per quegli anni è organo di un collegio e perde la sua identità e il suo ego pubblici. Se un nominato non se la sente può sempre rifiutare la nomina.
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