Nel marzo 1612, l’artista romano Orazio Gentileschi indirizza una supplica a papa Paolo V, denunciando, insieme al tentato furto di alcune opere, il fatto che «una figliola dell’oratore è stata forzamente sverginata e carnalmente conosciuta più e più volte da Agostino Tasso pittore e intrinseco amico e compagno dell’oratore», con la complicità di una vicina di casa, che su quel rapporto avrebbe lucrato. Da quella denuncia, si aprì un processo presso la magistratura criminale competente a Roma, il tribunale del Governatore, i cui atti sono contenuti in un corposo faldone intitolato Stupri et lenocinii, conservato presso l’Archivio di Stato di Roma. Delle due fattispecie in copertina, «stuprum», che solo parzialmente può essere reso dal contemporaneo «stupro», diviene evento e asse intorno cui si struttura interamente la mostra ospitata nelle sale di palazzo Ducale di Genova fino al primo aprile, dedicata alla «figliola» di Orazio, impegnata insieme al padre sin da giovanissima in prestigiose committenze, che l’avrebbero condotta ben oltre l’ambiente romano in cui mosse i primi passi, da Firenze a Genova a Napoli, fino all’Inghilterra. Coraggio e passione, Artemisia Gentileschi è prima di tutto una donna che ha subìto uno stupro.
Sin dall’apertura della mostra, inaugurata il 16 novembre, non sono mancate le critiche. Il modo in cui la stampa le ha sin da subito riportate («è la cronaca di uno stupro») potrebbe far sospettare che anche dalle nostre parti sia infine arrivata la tanto temuta cancel culture. Che male ci sarebbe nell’includere in una mostra una «cronaca di uno stupro»? Perché lo si dovrebbe tacere nel racconto di una cultura come quella in cui Artemisia era immersa, che dava all’onore sessuale delle donne una rilevanza totale nel plasmare – nel bene e nel male – la loro fama e il loro destino? Ma il dibattito forse non ha ancora centrato un’altra questione cruciale, accanto alla problematicità del fare della violenza l’unica chiave narrativa della vita di un’artista: le ricadute dell’assenza della storia, come prospettiva e come metodo. Il punto non è dire o non dire, bensì come farlo.
Letteralmente, una cronaca è un’esposizione di fatti per ordine di tempo. Un’antica arte del racconto, un’operazione – certo, sempre selettiva e parziale – che può aiutare a sistemare il disordine in cui siamo immersi in una trama in cui qualcosa, se non tutto, può filare, affinché ne resti memoria. Si comincia da un punto per approdare a un altro. Ma qualcosa non torna, qui, a partire dall’inizio. Anzi, qualcosa torna troppo.
Alcune opere esposte sarebbero la sintesi e la prova di un’ossessione di Artemisia per la rappresentazione di un maschile per natura molesto e violento
All’ingresso della mostra, una mappa della Roma dell’epoca ci potrebbe aiutare a collocare Artemisia Gentileschi nel tempo e nello spazio che l’ha vista nascere, rimanere precocemente orfana, apprendere il mestiere dal padre, produrre le prime opere, ricevere le prime committenze. E invece, pensando di seguire gli spostamenti di lei, della famiglia, dei personaggi cui è legata e che ne incrociano la vita per comprendere meglio tutto ciò che Artemisia ci lascia, ci troviamo di fronte a un evento genetico («dove tutto è cominciato»), che diventa totale. È quanto accadde in casa Gentileschi in via della Croce: «qui il 6 maggio 1611 avviene lo stupro di Artemisia Gentileschi» (così la didascalia) a opera di Agostino Tassi, pittore e collega di Orazio, il padre. E poi un susseguirsi di tracce che snodano e riannodano la vita dell’artista a questo accadimento, da cui tutto parte e cui tutto torna. E che tutto spiega. La Susanna e i vecchioni di Pommersfelden del 1610 e quella di Brno, dipinta quarant’anni dopo, esposte nella prima sala, sarebbero la sintesi e la prova di un’ossessione di Artemisia per la rappresentazione di un maschile per natura molesto e violento, e di un femminile cronicamente insidiato. Tutto in Artemisia deve parlarci di questo. Non solo ciò che produsse, ma anche le immagini di lei che altri lasciarono. E non basta enunciarlo nella menzionata mappa dei suoi luoghi romani, non basta ricordarlo nell’installazione del Casino delle muse di palazzo Borghese, in cui si svela un «mistero» di cui non sentivamo alcun bisogno (la donna che si affaccia dalla Loggia, cui lavorarono insieme Orazio e Agostino, è Artemisia: la figlia del primo, la stuprata dal secondo!).
Ma il culmine del percorso, attraversamento obbligato dello spazio espositivo, è la stanza dello stupro. Completamente nera e vuota, salvo un letto matrimoniale di fronte all’ingresso. Ciò che si materializza e si muove è frutto di proiezioni luminose che avvolgono chi lo percorre, creando un’atmosfera fra il gotico e l’esoterico. Quella che, dai documenti di cui disponiamo, doveva essere una prima sera di maggio («il medesimo giorno doppo mangiare ch’era tempo piovoso») diviene una notte buia e tempestosa. Da una finestra entra il bagliore dei lampi e una pioggia battente scroscia nell’oscurità. Sul muro appaiono candele dalle fiamme tremolanti e una voce di donna, rotta dai tuoni, parla da un luogo e un tempo che non vediamo con crescente concitazione. Vorrebbe essere quella di Artemisia diciannovenne che il 18 marzo 1612 depone contro Tassi, accusandolo di averla presa contro la sua volontà, promettendole un matrimonio che non si sarebbe più fatto.
Il processo durerà sette mesi e vedrà coinvolto un gran numero di testimoni, portando a una sentenza di esilio per Tassi, che sconterà in minima parte. È tutto nel grosso faldone evocato all’inizio, per l’occasione trasferito in una teca posta all’ingresso della stanza del crimine allestita a Genova. Ma chiuso nell’espositore e nella semioscurità, il suo contenuto diventa una reliquia e a quel punto i suoi pezzi possono piegarsi agli usi più disparati, funzionali ai bisogni di chi li prende. Se il faldone lo si fosse trattato come una fonte, se lo si fosse interrogato, ascoltato e rispettato, avremmo potuto sapere dalle parole degli interrogati di una fittissima rete di relazioni che si intessevano intorno alla casa e studio di Gentileschi. Rapporti conflittuali, vendette, dicerie. E avremmo saputo che tra gli argomenti di queste, ve ne era uno che spiccava per controversia: Artemisia era davvero vergine al momento del fatto di via della Croce? Fu davvero Tassi il primo?
Tassi avrebbe sempre negato di aver avuto rapporti sessuali con la figlia dell’amico e collega, di cui frequentava abitualmente la casa; questa figlia di Gentileschi, dichiarava Tassi, «faceva cattiva vita», ed era tutto un viavai di uomini che entravano e uscivano dalla casa, che andavano a godere delle sue concessioni. La stessa Artemisia, dicono altri interrogati, era stata spesso vista uscire, non certo per andare in chiesa. E tanto si era data, e a chiunque, da essersi presa addirittura il «mal francese». Accusa infamante, la malattia delle prostitute.
Le ragioni per cui quella voce di donna, la supposta voce di Artemisia Gentileschi dal non luogo e il non tempo della stanza nera dello stupro, racconta i dettagli di quanto accadde in quella sera di maggio, affondano le radici qui, in questa folla di sguardi e di giudizi, e in un tempo e in un luogo preciso. Artemisia venne interrogata a casa del padre, in apertura del processo. La sua deposizione è per forza di cose plasmata dalle richieste che la procedura prevede. Bisognava chiarire se il suo ruolo nella vicenda fosse stato totalmente passivo, se non vi fosse stata una qualche forma di consenso a ciò di cui Tassi veniva accusato: l’aver avuto rapporti sessuali, in assenza di vincolo matrimoniale, con una vergine onorata. Questo è il fatto grave, e questo è, tecnicamente, lo stupro nella tradizione giuridica di antico regime. Fino al Settecento inoltrato se ne distinguono diverse fattispecie, a seconda del modo in cui tali rapporti vengono ottenuti, se con la persuasione e la promessa di un matrimonio, se con la forza. E sarà solo nel pieno Ottocento che il termine verrà a significare atto sessuale violento. Ma la sensibilità per la rilevanza della vittima ancora non è comparsa all’orizzonte. Tanto che nel primo codice penale dell’Italia unita, il Codice Zanardelli del 1889, lo stupro è incluso fra i delitti contro la morale e il buon costume, come i cosiddetti atti di libidine, in buona sostanza esito di una smisurata esuberanza sessuale (e rimarrà in questo gruppo, ricordiamo, fino alle soglie degli anni Duemila!).
Nel primo codice penale dell’Italia unita lo stupro è incluso fra i delitti contro la morale e il buon costume, come i cosiddetti atti di libidine
La rilevanza della vittima – la rilevanza di Artemisia come soggettività violata – è molto di là da venire in questo lungo antico regime, perché una rete di priorità morali e giuridiche assegna all’ordine della comunità e all’onore della famiglia il ruolo di primo soggetto da tutelare. La ferita di Artemisia, la ferita della perdita della verginità, dietro promessa di matrimonio, dietro coercizione fisica, si può comprendere solo se la si pensa come individuale e sovraindividuale insieme. Se è vero che Artemisia ha perso la verginità fuori dal matrimonio, Orazio allora, e tutta la famiglia con lui, perde l’onore. E non potendo ricucire un imene bisogna che si ripari l’onore familiare con un matrimonio (ecco perché Agostino Tassi avrebbe dovuto sposare Artemisia, come promesso), o che si riconosca che il maltolto è stato tolto davvero male, cioè malgrado la volontà della fanciulla, che solo così può essere reintegrata in società come donna attenta a custodire la sua principale ricchezza: l’integrità sessuale. Potrà ricevere allora una dote, che le consenta di sistemarsi collocandosi dignitosamente, se non col suo «stupratore», con un altro.
Per questo in sede di processo bisognava che Artemisia raccontasse tutto. Attenzione, però: la descrizione della dinamica doveva essere particolareggiata, ma senza indulgere su certi dettagli anatomici tanto da poter far sospettare che quella fosse una situazione in qualche modo per lei consueta, e insistendo sulla sua contrarietà, sino all’ultimo. Bisognava che si sapesse che c’erano stati atti di chiara resistenza, perché una linea di mentalità che affondava nel diritto romano attribuiva alle fanciulle un innato gradimento della brutalità. Per questo Artemisia non risparmia nemmeno il racconto della sua collera e della violenza che lei stessa ha minacciato di agire, e in parte agito:
«E gli sgraffignai il viso e gli strappai i capelli… e doppo che ebbe fatto il fatto suo mi levò da dosso et io vedendomi libera andai alla volta del tiratoio della tavola e presi un coltello et andai verso Agostino dicendo: “Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vittuperata”. … et io li tirai col cortello».
Fermiamoci ancora su una parola, «vittuperata». «Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vittuperata», dice Artemisia a Tassi brandendo il coltello. Vituperare viene da due termini latini: vitium e parare, ovvero procurare un danno materiale e figurato (può voler dire anche rovinare qualcuno con le parole, guastandone la reputazione). Il danno di Artemisia è materiale e relazionale al contempo: chi se la prenderà in sposa una donna non più integra nel corpo, con una ricaduta a effetto domino su tutta la sua famiglia? L’entità del danno subìto giustifica dunque la violenza minacciata da Artemisia col coltello (Tassi verrà ferito lievemente). L’onore offeso può suscitare un sentimento specifico che i giudici dei tribunali di antico regime conoscevano molto bene, il furore, una rabbia accecante che spinge alla vendetta chi ha subìto un oltraggio, che chiede in qualche modo di essere risarcito. In molti casi, il furore comportava l’attenuazione della pena, quando non l’assoluzione. La collera di Artemisia, in quel sistema di valori, ha dunque qualcosa di onorevole e deve essere detta: e qui avremmo un altro punto da mettere sotto osservazione, cioè la dimensione culturale, dunque storica dei sentimenti. Le parole con cui Artemisia risponde all’interrogatorio sono intrise di questa visione del mondo, che si traduce in una visione del sé intrisa di quel mondo.
Ma spogliate del loro contesto, fatte risuonare nella stanza dello stupro, una stanza senza storia, le parole di Artemisia perdono le loro ragioni d’essere. Hanno qualcosa di osceno, perché escono dalla scena originaria della loro necessità e si piegano a ragioni d’altri. Denuncia? Ma di cosa, e a chi? Sensazionalismo? Rendere giustizia ad Artemisia? Ma lo avrebbe voluto, e in questo modo? Le intenzioni profonde a oggi non si conoscono. Senz’altro, è piuttosto evidente il loro esito: una spettacolarizzazione del dolore e della violenza. Non si tratta, dunque, di non dire. Ma di farlo nel rispetto di Artemisia, delle sensibilità del tempo in cui era immersa, con la disponibilità a prendere atto anche della sua irriducibile distanza e complessità.
[Le citazioni sono tratte da A. Gentileschi, Lettere, precedute da «Atti di un processo per stupro», a cura di E. Menzio, Abscondita, 2020].
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