Questo articolo fa parte dello speciale Verso il 25 settembre
Il contrasto alle diseguaglianze educative e alla dispersione richiede la presenza di un’offerta attrattiva e plurale di percorsi, che garantisca in modo omogeneo sul territorio nazionale l’effettivo godimento di un diritto e l’estensione progressiva del suo esercizio, sia in senso orizzontale, includendo le fasce sociali più svantaggiate, a partire dalle quote crescenti di giovani immigrati, sia in senso verticale, promuovendo l’alta formazione per tutte le filiere e l’apprendimento permanente.
Nella scheda di programma del Partito democratico sulla scuola si propone l’ampliamento “dell’obbligo formativo da 10 a 13 anni di frequenza e relativa armonizzazione dei percorsi di istruzione e formazione professionale”. Qualcuno dovrebbe informare gli estensori che l’obbligo formativo fino ai 18 anni in Italia è in vigore dal 1999 (l. 144), da quando cioè la normativa ha affiancato all’estensione dell’obbligo scolastico da 8 a 10 anni, l’obbligo di frequentare dopo i 16 anni, in alternativa alla scuola, percorsi di formazione professionale o di apprendistato fino al conseguimento di una qualifica o di un diploma. Quindi, par di capire, sta scritto formativo, ma si legge scolastico. Una prima avvertenza, contro la vulgata: non c’è nessun Paese in Europa nel quale l’obbligo ai 18 anni si debba espletare esclusivamente a scuola. Il nostro ordinamento è già perfettamente in linea, da oltre vent’anni, con quello dei Paesi dell’Unione europea.
Una prima avvertenza, contro la vulgata: non c’è nessun Paese in Europa nel quale l’obbligo ai 18 anni si debba espletare esclusivamente a scuola
Europa a parte, l’idea di una scuola obbligatoria fino alla maturità (quindi non ai 18, come si va dicendo, ma ai 19 anni), appare fuori centro rispetto ai problemi reali del sistema educativo italiano, per come si presenta oggi. Anzi, essa rischia di essere gravemente distorsiva rispetto a quanto si è costruito di buono, nell’ordinamento e nella prassi, da almeno due decenni in qua. Da quando cioè al percorso scolastico si è affiancato quello di Istruzione e formazione professionale, un segmento flessibile di formazione svolto dai Centri di Formazione professionale accreditati dalle Regioni o dagli Istituti professionali di Stato, centrato sull’attività laboratoriale e di tirocinio, anche in forma di sistema duale (aula e apprendistato), che ha consentito di dimezzare nel tempo la percentuale dei cosiddetti early leavers, ossia dei giovani che, fra i 18 ai 24 anni, si fermano al diploma di scuola media (erano il 25,9% nel 2001, oggi sono il 12,7%). La lotta alla dispersione passa di qui. Nelle due righe dedicate al tema nel programma del Pd, la frase sull’"armonizzazione dei percorsi di istruzione e formazione professionale” suona sibillina e minacciosa a un tempo: se si vogliono tutti i giovani a scuola fino ai 19 anni, armonizzare i corsi di IeFP non può che significare smantellarli.
Si tratterà, al contrario, di affinare ancora di più la qualità di questo segmento, diffondendo le esperienze migliori e favorendo i legami con il tessuto produttivo locale, soprattutto nelle realtà dove l’offerta è ancora insufficiente.
Occorre ripensare tutto il segmento scolastico tecnico-professionale secondario: qui andrebbe concentrata una seria azione riformatrice, altro che obbligo scolastico ai 19 anni
Perché poi il vero nodo è sempre quello del divario territoriale. Checché se ne dica comunemente, l’intero sistema educativo del Paese ha fatto passi avanti notevoli negli ultimi decenni; ma i risultati positivi sono a pelle di leopardo e con una distribuzione geografica tutta spostata, una volta di più, nelle regioni del nord. Lo mostrano tutti i dati relativi alla dispersione, ai risultati Invalsi e Pisa, alla disoccupazione giovanile, alla diffusione degli Its e dei percorsi di Istruzione e formazione professionale e di sistema duale, alla frequenza delle Scuole dell’infanzia (il segmento 3-5 anni): al netto di eccellenze locali, il sud, le isole e ampie zone del centro Italia scontano un disallineamento sensibile rispetto agli obiettivi raggiunti nel nord, dovuto a tre fattori fondamentali: 1) l’arretratezza delle infrastrutture materiali (assenza o fatiscenza degli edifici), immateriali (digitalizzazione insufficiente o assente), organizzative (scarso coordinamento dei servizi educativi e di questi con i servizi alla persona e per il lavoro) e sociali (tessuto associativo limitato, sussidiarietà orizzontale spesso inesistente); 2) l’inadeguatezza di Regioni ed enti locali nell’impiego efficiente delle risorse, pure ingenti, di fonte soprattutto comunitaria (Fondo sociale europeo), mirate al contrasto alla povertà educativa, spesso disperse e talvolta non spese e nella regia del sistema formativo del proprio territorio, abdicando ai compiti di governo che la Costituzione affida loro; 3) l’assenza di un tessuto imprenditoriale diffuso e coeso, capace di proporsi come attore cooperante nei processi formativi di transizione al lavoro e di stabilire alleanza solide tra scuola, Centri di Formazione professionale (anche questi poco e male distribuiti) e aziende.
Le vere questioni da affrontare se si vuole ridurre la dispersione e diminuire le diseguaglianze territoriali sono due: come diffondere le esperienze formative di successo già in essere, alternative e complementari ai percorsi scolastici, e come rendere attrattivo l’approdo dell’istruzione tecnica superiore, a partire dal basso. In questo senso va benissimo l’investimento da Pnrr sugli Its e la loro riconfigurazione normativa come Its Academy, con un coinvolgimento maggiore delle aziende, ma occorre ripensare tutto il segmento scolastico tecnico-professionale secondario: qui andrebbe concentrata una seria azione riformatrice, altro che obbligo scolastico ai 19 anni. Ma tutto ciò richiede pensiero e confronto e tempo – che poco stanno insieme con una campagna elettorale.
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