Il dramma mediorientale pone problemi seri a chi, senza avere una specifica competenza sull’intricata materia, vorrebbe sottarsi alle semplificazioni oltre che alle radicalizzazioni di parte che animano, ma vorremmo dire avvelenano, il dibattito contemporaneo.

La prima questione, assai spinosa, è il fatto che all’origine della controversia vi è la creazione di uno Stato-nazione che non esisteva storicamente, almeno nel senso di un periodo storico definibile per la accettazione di quel concetto. Israele è per certi versi una creazione dal nulla, ma non è il primo caso storico del genere. Anche la nazione italiana nasce in un modo per certi versi comparabile: quando Metternich affermava che l’Italia era una espressione geografica, dal punto di vista storico-diplomatico aveva delle ragioni. Poi però una dinamica storica la nazione Italia la fa sorgere: essa viene riconosciuta dalla comunità internazionale, e oggi a nessuna persona raziocinante verrebbe in mente di poterla cancellare. Ovviamente nel caso precedente i riferimenti alla Israele biblica fanno il paio con quelli nel caso italiano alla Roma repubblicana e imperiale: sono leggende identitarie e nulla più.

Tuttavia, in parallelo va riconosciuto che non è esistita neppure una entità di Stato-nazione che si riferisse alla identità del popolo palestinese, che è stato più o meno parte di varie configurazioni della sistemazione arabo-turca del territorio in cui viveva. Questo inizia a spiegare il garbuglio di fronte a cui ci troviamo. Benissimo la soluzione che si sta cercando da tempo di costruire, quella dei due popoli e due Stati, ma se si tiene conto che si tratta di far “ragionare” due popoli a convenire che si debbono riconoscere non delle leggende pseudo-storiche, ma delle sistemazioni istituzionali affermatesi nel tempo per inquadrare due fenomeni che si sono costruiti in parallelo: lo Stato-nazione israeliano e una identità nazionale palestinese che è sorta nel momento in cui il primo ha utilizzato lo spazio geografico della seconda per darsi un territorio.

Non è esistita neppure una entità di Stato-nazione che si riferisse alla identità del popolo palestinese, che è stato più o meno parte di varie configurazioni della sistemazione arabo-turca del territorio in cui viveva

Ciò significa che gli uni e gli altri debbono accettare che le rispettive esistenze partono dalla individuazione di una parità di diritto all’esistenza, ma anche di un limite a questa che è dato dalla non accettabilità della cancellazione di una delle due. Ora è facile dire che gran parte, se non la quasi totalità del versante palestinese rifiuta di riconoscere questa realtà. Più complessa la situazione sul versante israeliano, perché, mentre almeno a parole qualche riconoscimento di quella realtà c’è, una quota che non sembra così minoritaria di fatto lo rifiuta e anzi spinge per assumere la stessa postura della cancellazione che si rimprovera ai palestinesi.

Naturalmente da un punto di vista storico sono inconsistenti le teorie delle anime belle dell’uno e dell’altro fronte, per cui si può avere uno Stato israeliano in cui i palestinesi convivono con gli ebrei su un piano di parità, ma rinunciando all’identità nazionale autonoma, oppure uno Stato palestinese in cui i cittadini ebrei convivono senza più un loro Stato. Per dire due banalità, gli italiani sotto l’Impero asburgico non erano particolarmente “oppressi”, così come gli irlandesi nel vecchio Regno Unito: eppure lo spirito nazionale ha portato agli esiti che conosciamo.

Dipanare questa matassa è un problema di grande complessità e richiederebbe sforzi di inventiva politica che sinora non hanno raggiunto la capacità necessaria per venire a capo della questione. Ovviamente non siamo così sprovveduti da pensare di avere noi soluzioni da mettere sul tavolo. La storia è un percorso lungo, tortuoso e drammatico: vedremo cosa se ne caverà, sapendo che le sistemazioni geo-politiche dipendono dall’intrecciarsi dei problemi specifici di alcuni attori “locali” con quelli più generali che l’equilibrio fra gli attori del sistema “internazionale” mette in campo.

La seconda questione su cui si vorrebbe attirare l’attenzione è il tema del rapporto fra “civili” e “militari” nelle guerre asimmetriche (peraltro lo sta diventando anche in quelle “tradizionali”). Hamas e Hezbollah sono formazioni che non distinguono fra i due campi: i loro militanti sono parte della popolazione civile, la loro vita si svolge all’interno delle loro società di insediamento, le strutture di questa sono usate anche in funzione della guerra e i non-combattenti si considerano, volontariamente o perché sono costretti, parte del sistema generale.

Anche qui la storia qualche riflessione ce la può suggerire. Quando durante la Seconda guerra mondiale gli Alleati colpirono città e infrastrutture della Germania non fecero distinzione fra “nazisti” e “tedeschi”, per la semplice ragione che nella quasi totalità dei casi era impossibile. Certo in quel contesto essendoci in campo due “eserciti” contrapposti, il fenomeno poteva essere maggiormente circoscritto. Nella attuale guerra in Ucraina i russi combattono infischiandosene di avere come obiettivi quelli della vita civile, salvo a strepitare se gli ucraini fanno lo stesso sul loro territorio.

Ciò non significa naturalmente accettare come giustificabile la guerra di distruzione e terra bruciata che il governo Netanyahu ha scatenato su Gaza, significa solo riflettere sul fatto che nessuno è stato sino ad oggi in grado di suggerire come fosse possibile altrimenti arrivare al risultato necessario che è il disarmo e la marginalizzazione di Hamas dalla scena mediorientale: un obiettivo obbligato nel momento in cui quella formazione ha scelto la via dello scatenamento di una guerra totale con il pogrom del 7 ottobre 2023.

È molto preoccupante prendere atto che al momento Israele, e non solo il suo pessimo governo in carica, non riesce a elaborare un programma per gestire in maniera realistica e credibile il Dopoguerra

È molto preoccupante prendere atto che al momento Israele, e non solo il suo pessimo governo in carica, non riesce a elaborare un programma per gestire in maniera realistica e credibile il Dopoguerra (neppure si pone il problema di quando arriverà). Senza di esso non ci sarà mai pace, ma solo una tregua, più o meno lunga a seconda di come sarà il quadro degli eventi futuri, perché inevitabilmente il ricordo di questa fase terribile riarmerà tutti gli animi da una parte e dall’altra. Va da sé che oltre a disarmare l’islamismo terrorista, va disarmato e messo in condizione di non nuocere il messianesimo farlocco degli ultra-religiosi ebrei: i due sono alleati di fatto nella ricerca dell’Armageddon finale, incuranti del fatto di finire entrambi travolti.

Rimane da considerare il contesto di un equilibrio internazionale che è ormai andato in pezzi. Fino a qualche decennio fa le tensioni in Medioriente sono state tenute sotto controllo dall’interesse generale delle potenze maggiori a non far superare loro il livello di conflitti locali, utili giusto per tenere acceso qualche fuoco di confronto, il quale però non doveva mettere in questione le loro strategie generali. Nel momento in cui l’equilibrio internazionale è saltato per il risorgere di strategie neo-imperiali, c’è stata una specie di via libera a concedere spazi a guerre che potessero inserirsi nel ridisegno dei poteri presenti nell’area mediorientale, il cui ruolo geografico è piuttosto noto come crocevia del contatto fra Occidente e Oriente (nella storia certe dinamiche tendono a ravvivarsi periodicamente).

Ribadiamo, in chiusura, che non c’è in queste riflessioni alcuna volontà di impancarsi a giudici della storia o di proporre letture che chiariscano una volta per tutte dove sta la giustizia e come si può ricostruire la pace. Modesti intellettuali di provincia quali siamo, riproponiamo solo il vecchio adagio sapienziale: non ci si salva l’anima sfuggendo alla complessità di problemi che non si riescono a inquadrare in categorie lapalissiane (e certo non si risolvono quei problemi).