Dunque non ha avuto l’esito caldeggiato dai suoi promotori il tentativo di introdurre nel nostro ordinamento giuridico la fattispecie penale del negazionismo, punendolo come reato con la detenzione. Alla commissione Giustizia del Senato si era infatti discusso dell’ipotesi di emendare l’articolo 414 del codice penale, aggiungendo, e omologando, all’apologia e all’istigazione alla commissione di delitti contro l’umanità, di guerra e di genocidio anche la loro negazione nel discorso pubblico.
L’iter parlamentare aveva sollevato in sé non poche perplessità, tra voci discordi nel metodo (ravvisando nella celerità con la quale si cercava di fare passare il provvedimento un agire quanto meno singolare) come soprattutto nel merito. Gli storici contemporaneisti si erano già espressi contro un’ipotesi di tal genere quando fu avanzata una prima volta, nel 2007, dall’allora ministro di Giustizia Mastella, reiterando adesso la precedente presa di posizione. Insieme a essi, una pluralità di studiosi e opinionisti, così come l’Unione delle camere penali. Il disegno di legge è parso da subito fragile nella sua interna intelaiatura, riferendosi, per la genericità della sua formulazione, a un crimine, la negazione verbale o scritta dei delitti, che da sé si presta a un potenziale eccesso di applicazioni. In altre parole, il dispositivo che il legislatore intendeva varare manifestava due vizi d’origine, sia pure nel tentativo di dare una forma a qualcosa senz’altro presente nella società (l’offesa costituita dalla negazione dell’evidenza del male), e come tale lesivo verso una pluralità di soggetti, ma assai poco riconducibile a tipologie sanzionatorie identificabili una volta per sempre al di là di ogni ragionevole dubbio. Il primo di questi è lo spazio di arbitrarietà che in tal modo si sarebbe offerto al giudice che fosse stato chiamato a punire condotte riconducibili alla negazione, più o meno fraudolenta. Poiché se essa si dà senz’altro da un punto di vista storico e morale, costituendo un’oggettiva offesa prima di tutto del buon senso, ben altro discorso è qualora la si declini nella sua identificazione su un versante strettamente giuridico. Cosa sarebbe stato per davvero punibile? Fino a che punto ci si sarebbe potuti spingere? La discrezionalità operativa del magistrato, unita alle sue sensibilità culturali, non avrebbe indotto certuni a propendere per colpire soprattutto i negatori di un certo colore politico piuttosto che di un altro? Non di meno, c’è stato chi ha messo in luce che si sarebbe reiterata la pessima abitudine, assai diffusa nel nostro Paese, di sanzionare duramente condotte reprensibili, traducendole però, all’atto pratico, nella concreta disattivazione della norma per la sua manifesta inapplicabilità.
Un secondo punto riguarda il rischio, sempre più diffuso, che a essere chiamati a tutelare quello che è impropriamente inteso come una sorta di «bene comune», la memoria storica, elemento della coesione sociale, siano soggetti e attori che con essa non possono avere altro che una relazione strumentale. I tribunali ricadono in questo orizzonte, non dovendo sancire ciò che è vero nel percorso di formazione di un’opinione storica, ma soltanto le deliberate diffamazioni quand’esse si verifichino. I negazionisti si situano abilmente a cavallo tra diritto estremo di libertà di espressione e il suo pregiudizio con il ricorso all’offesa. Quando e dove tale sottile confine venga varcato non è agevole dirlo. Non di meno, nei casi più eclatanti ed evidenti, sussiste già una normativa che persegue ciò che è a tutti gli effetti un reato. Esiste un «diritto alla verità» che tuttavia non può essere posto in immediata e diretta tensione e contrapposizione con il mutevole, differenziato e pluralistico percorso di formazione del giudizio storico, soprattutto in società multiculturali come la nostra, dove coesistono voci ed esperienze diverse. Il rischio di istituire una verità di Stato, e con essa il tabù della sua indiscutibilità, è stato ravvisato come una concreta possibilità da tutti i critici del disegno di legge.
La questione, malgrado tutto, è una sola: la storia si difende da sé. Il problema, semmai, rinvia alla relazione tra vero e falso in società dell’informazione inflazionata, come le nostre, dove il mutamento appare a molti sempre più incomprensibile, babelico e minaccioso, in una selva di simboli senza significato. E la questione, va da sé, non riguarda il rapporto con il passato ma con il nostro presente.
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