Nel panorama del cinema italiano, Stranizza d’amuri (Giuseppe Fiorello, 2023) è una perla inaspettata. Chi pensa di andare a vedere un filmetto romantico, un vivace debutto, con qualche canzoncina di Battiato e divertenti quadretti siciliani, si ritrova invece davanti a un’opera, classica e originale a un tempo, che lascia una profonda impressione. E che è anche, in effetti, tutto quello che ci si aspetta: storia romantica e belle canzoni (non solo di Battiato), ritratto del Meridione. Però è anche di più. Amarcord di Fellini, voltato in catanese. E neorealismo. Una storia durissima, come solo certe grandi storie d’amore sanno essere; anche perché è una storia vera.
Il primo punto di forza del film è proprio il fatto di essere basato, a grandi linee, su di un fatto realmente accaduto. Due ragazzi che si amano, morti in circostanze poco chiare (omicidio o suicidio?), ma essenzialmente perché il loro amore omosessuale, libero e coraggioso, vien mal visto dalla comunità. Il film non cerca di far luce su un delitto tuttora insoluto, di cui è chiara solo la matrice omofoba del contesto. Chi su questo voglia approfondire, può fare riferimento al bel libro di Francesco Lepore, Il delitto di Giarre (Rizzoli, 2021). Un libro che indaga soprattutto il dopo: da un lato il clima omertoso che accompagna e segue la morte dei due giovani, dall’altro lato le battaglie che porteranno di lì a poco, proprio sull’onda di quel delitto e di quella emozione, alla costituzione del primo circolo Arcigay in Italia, a Palermo.
Stranizza d’amuri, invece, è centrato sul prima, un prima che viene liberamente riadattato. Non tanto «liberamente», a dirla tutta: il film si basa, senza dubbio, su di un romanzo, Stranizza di Valerio La Martire (Bakemono Lab, 2013 e ora Rizzoli, 2023), che però non viene riconosciuto nei crediti (al punto che La Martire ha avviato una causa con la produzione). È una mancanza grave, che si doveva evitare, un comportamento deontologicamente scorretto che sfregia un’opera ben riuscita. Ma al di là di questa macchia, grande, il punto è che se il film (e prima il romanzo) riesce a evitare il rischio di idealizzare la storia d’amore fra i due ragazzi, ebbene è proprio perché muove da una vicenda di cronaca; nei tratti essenziali, tolti i particolari, le cose potrebbero essere andate in questo modo.
E che la storia non sia idealizzata, ma realistica, lo fa pensare anche un secondo suo pregio. Come nella vita, proprio come nel grande cinema neorealista (verrebbe da dire, come anche nella produzione di questo film), i personaggi di Stranizza d’amuri non hanno un copione definito. Nei peggiori, si può trovare un lampo di umanità (alla fine i ragazzi perdigiorno del «Bar Mocambo», ah, che nome!, fanno quasi simpatia); nei migliori, perfino, troviamo a un certo punto un lato aberrante, violento, stravolto dal pregiudizio (la metamorfosi del padre di Nino è impressionante). Cambiano insomma, queste figure umane, sono buone e cattive a un tempo, o forse non sono né buone né cattive, sono poveri diavoli, soltanto, che non riescono a rompere il cristallo che li imprigiona, quello dell’omofobia, dentro una cultura ancora visceralmente patriarcale.
Tutti cambiano, tranne due: i protagonisti principali, Gianni (Samuele Segreto) e Nino (Gabriele Pizzurro). Loro, i due giovani, gli unici che quel cristallo l’hanno rotto, e con coraggio, sono anche gli unici che non hanno più bisogno di cambiare. Ed è proprio grazie a questo contrasto che l’opera riesce a far risaltare il suo nucleo di impegno civile: è proprio dal confronto fra la testardaggine eroica dei due innamorati e gli sconvolgimenti violenti di amici e familiari (che certo, a modo loro, a quei ragazzi vogliono anche bene) che emerge il forte messaggio di denuncia. No, non sono liberi di amarsi, Gianni e Nino. La rivoluzione dell’amore, la libertà e il diritto, fondamentale, di amare chi vogliamo, qui non si è (ancora?) compiuta.
È proprio dal confronto fra la testardaggine eroica dei due innamorati e gli sconvolgimenti violenti di amici e familiari che emerge il forte messaggio di denuncia
Terzo. Fateci caso. Qui i protagonisti sono due ragazzi del popolo, di umili condizioni. Non è una storia d’amore fra persone facoltose, o fra poeti, come alcune, drammatiche, epopee del passato (ad esempio quella fra Rimbaud e Verlaine, ripercorsa in Poeti dall’inferno da Agnieszka Holland, nel 1995). Non è nemmeno la relazione fra un intellettuale pubblico e un ragazzo, come in un’altra grande opera, straziante, del cinema italiano del nostro tempo, Il signore delle formiche (di Gianni Amelio, 2022). Insomma, l’amore omosessuale qui non è prerogativa solo delle persone culturalmente o economicamente «emancipate». Né certo viene ridotto al rango di mero impulso, non riconosciuto quindi come amore dai «proletari», o «sottoproletari», o piccolo borghesi, che lo vivono. L’amore omosessuale qui è una necessità, come è sempre l’amore, per chi lo prova, di qualsivoglia condizione sociale o culturale. La relazione fra i due ragazzi è dipinta con estrema naturalezza: dai dialoghi semplici, conditi da un dialetto leggero, ai modi dei due protagonisti, ai loro vestiti semplici («bella camicia», scherza Nino incontrando Gianni); perfino una pennellata di poesia: la descrizione che Nino fa dei fuochi d’artificio risulta spontanea.
E il sesso non è neanche centrale, pur se non viene camuffato (bella la metafora dell’abbraccio sott’acqua), al punto che spesso i due protagonisti appaiono semplicemente due amici, e per certi aspetti in questa loro relazione potrebbe riconoscersi chiunque. Una storia poi ulteriormente popolarizzata, e universalizzata, dall’evento più empatico che ci possa essere, per l’«italiano medio» (grazie a una trasposizione di appena due anni, rispetto agli eventi della cronaca): i mondiali di calcio, quelli del 1982, i più belli forse che l’Italia abbia mai vinto. Una storia universale, quindi, per l’Italia e per il mondo. E una storia, a un tempo, irripetibile, meridionale, del Meridione come archetipo dei Sud del mondo. E siciliana fin nei dettagli.
Già, i dettagli. Che sono poi, in questo caso, quello che il cinema ci mette di suo. Il primo è la musica. Non solo le due canzoni di Battiato, Stranizza d’amuri (1979), che dà il titolo al film, e Cuccuruccucù, una hit di quegli anni (1981) che i due ragazzi cantano nel loro periodo più spensierato. Ma un inedito di Giovanni Caccamo, Luntanu, e Il mio mondo (1963) di Umberto Bindi. Battiato, il grande artista di quella terra, e di quegli anni, e Giovanni Caccamo, catanese anche lui, legato artisticamente al maestro Battiato, che con un bel brano in siciliano e musiche originali (scritte insieme a Leonardo Milani e, in due casi, con Daniele Bonaviri) decora i bozzetti siciliani, dal bar Mocambo alla casa di Nino. E poi Umberto Bindi, cantautore raffinato e musicista schivo, emarginato proprio per la sua omosessualità, in un’Italia di altri tempi, qui in una delle sue canzoni più belle (e importanti, con Arrivederci, 1959, e Il nostro concerto, 1960): una elegante e semplice, potente, dichiarazione d’amore.
Secondo dettaglio, gli attori. Quasi tutti alle prime armi. Quasi tutti vivaci, autentici, che animano figure difficili da dimenticare; forse con qualche sbavatura, leggera, che però lascia un sapore di autenticità. Come i grandi registi (di nuovo, si pensi al Fellini di Amarcord) sanno fare. Non eccezionale, invece, è la fotografia, seppur a tratti apprezzabile (sulle strade, le case, i paesaggi).
In un Sud oppresso anche la libertà di amare non è possibile. In un mondo in cui non c’è la libertà dal bisogno, cioè la libertà di lavorare, di decidere più o meno liberamente della propria vita
Per sfondo, la questione meridionale. Non compare la mafia (non almeno in modo esplicito), ma certo vi sono pennellate sul Mezzogiorno chiare e nette: dallo zio di Nino che dà lavoro alla cava, severo fino alla ferocia (non era così anche il lavoro dei braccianti a giornata, nei latifondi, fino a non molto tempo prima, il simbolo stesso della miseria del Sud?), agli assessori così influenti su quell’umanità povera e laboriosa, o al vigile che cambia di opinione non appena gli si nomina un «potente». Chi, come chi scrive, era bambino in quegli anni in una città di provincia del Sud, riconosce gli stessi interni delle case, gli stessi motorini (il Sì, il Ciao) e le stesse strade, la stessa noia al bar di paese con i suoi personaggi che cercano qualcuno da prendere in giro; lo stesso disperato bisogno di lavorare, la stessa voglia di emanciparsi, magari, proprio attraverso una paga che possa dare un minimo di indipendenza.
Si comprende, in questo Sud oppresso economicamente, e culturalmente, come anche la libertà di amare non sia possibile in un mondo in cui non c’è la libertà dal bisogno, cioè la libertà di lavorare, di decidere più o meno liberamente della propria vita, di scegliere con chi e dove vivere (e non solo per i due ragazzi, anche per le donne, si pensi a quella figura struggente e contraddittoria che è la madre di Gianni); si capisce come i diritti civili e i diritti sociali, e forse anche quelli politici, non possano che reggersi insieme.
In tutto ciò la storia ha una struttura semplice, quasi elementare: una prima parte solare, la favola, che sale. La seconda, il dramma, precipita. Con un guitto finale, di riscatto, e di dolore. È solo la cronaca, oltre la pellicola, a dirci come termina (forse: non sono in fondo finzione, il cinema e la letteratura?).
Stranizza d’amuri, basato sul romanzo Stranizza, è una grande storia d’amore, sull’amore che non osa dire il suo nome. Ed è un grande film storico. È forse l’opera definitiva, verrebbe da dire, sull’epoca eroica dell’omosessualità, quella in cui amarsi poteva costare la vita, e costava la vita, in Italia. Se non fosse che quell’epoca non è finita, non di certo in molti Paesi del mondo: sono settanta quelli in cui le relazioni omosessuali sono reato, e in sei Paesi viene effettivamente praticata la pena di morte (Iran, Arabia Saudita, Yemen, Nigeria, Sudan e Somalia). La situazione in alcuni posti sta peggiorando: di recente, ad esempio, la pena di morte per gli omosessuali è stata introdotta in Brunei (2019) e in Uganda (2023). Perfino nell’Unione Europea, l’Ungheria di Orbán sta introducendo leggi discriminatorie contro le persone Lgbtqia+, seguendo il modello della Russia di Putin. E naturalmente, anche nel caso in cui non vi siano leggi che vietino espressamente una relazione omosessuale, questa può ugualmente portare a gravi discriminazioni, o addirittura costare la vita (è il caso, appunto, del delitto di Giarre in Sicilia). Le leggi contro l’omotransfobia servono a evitare proprio questo, o a evitare episodi di bullismo come quelli che si verificano nel film (tanto più gravi se pensiamo che i tassi di suicidio fra gli adolescenti Lgbtqia+ sono 3-4 volte superiori a quelli fra gli adolescenti eterosessuali). Ma in Italia, bisogna ricordarlo, non abbiamo ancora una legge contro l’omotransfobia e l’attuale governo non la considera una priorità.
Eh sì, quindi. Stranizza d’amuri è anche un film politico. È la discriminazione che potremmo avere alle spalle, ma che non è passata. È amore e lotta, attraverso la nostra storia. Narrata con gioia e con dolore, con l’ingenuità e la passione. Chapeau agli autori.
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