La crisi del modello svedese. Domenica 19 settembre si sono svolte le elezioni per il rinnovo del Riksdag, il Parlamento unicamerale svedese. Un voto che sta suscitando un’ampia eco internazionale a causa di tre grandi novità: la seconda sconfitta elettorale consecutiva del partito socialdemocratico, per la seconda volta nella storia della Svezia contemporanea, cioè da quando, negli anni Trenta, Per Albin Hansson creò il welfare state scandinavo;la riconferma elettorale di un leader politico non socialdemocratico, il premier uscente Frederik Reinfeldt; infine, l’ingresso in Parlamento dei “democratici di Svezia”, partito della destra ultra-nazionalista e xenofoba, desideroso di limitare l’immigrazione e fare uscire Stoccolma dalla Ue, guidato dal giovanissimo Jimmie Åkesson, un po’ Geert Wilders e un po’ Haider. Un vero shock per la Svezia che, per essere compreso appieno, necessita di almeno quattro spiegazioni.
La prima riguarda l’esito elettorale. Anzitutto, come segnalato da molti commentatori, si è avuto un calo di consensi per entrambi gli schieramenti, sia per l’Alleanza di centrodestra priva della maggioranza assoluta (da 178 a 172 seggi, ne servono almeno 175), sia per il raggruppamento rosso-verde di centrosinistra (da 171 a 157), a ovvio vantaggio dell’ultra-destra. Nel dettaglio, dei sette partiti entrati in Parlamento, gli unici ad aumentare sono i moderati di Reinfeldt (da 97 a 107 seggi, dal 26,2% al 30%), i verdi (da 19 a 25 seggi, dal 5,2% al 7,2%) e i democratici (da 0 a 20 seggi, dal 2,9% al 5,7%). Clamorosa la sconfitta dei socialdemocratici: rimangono il primo partito, ma crollano dal 35% al 30,9%, da 130 a 113 seggi. Il peggior risultato di sempre.
La crisi della socialdemocrazia, un fenomeno iniziato già dai primi anni Novanta, conduce a una seconda riflessione: il mutamento definitivo della politica svedese, secondo la definizione di Giovanni Sartori, da sistema a partito predominante (appunto i socialdemocratici) a uno più competitivo, certamente bipolare, ma ancora non ben definito, come dimostra il loro progressivo svuotamento elettorale. Una situazione frutto delle grandi trasformazioni cui è stata sottoposta la società svedese negli ultimi due decenni (dall’entrata nella Ue nel 1994 al rifiuto dell’euro nel 2003, costato la vita ad Anna Lindh), che ne fotografa sia il disorientamento che il mutamento generazionale, accomunandola a tutti gli altri paesi europei.
Una terza considerazione è legata ai temi della campagna elettorale, centrata prevalentemente su economia ed immigrazione. Sul primo versante il premier Reinfeldt si è dimostrato capace di affrontare la crisi internazionale, riportando il PIL svedese da -4% (dicembre 2008) a + 1,9% (giugno 2010) con un mix di tagli fiscali e riduzione del debito pubblico, con costi non eccessivi sul sistema sociale, facendo così breccia nell’elettorato progressista. Tuttavia, anche in Svezia il grande numero di cittadini extra-comunitari (il 14% della popolazione, record europeo), in prevalenza mediorientali, ha occupato ampi spazi nell’agenda politica, avvantaggiando chi (Åkesson) ha saputo capitalizzare elettoralmente il contrasto a un’immigrazione giudicata eccessiva e pericolosa, come nella città di Malmö, teatro in alcune zone di degrado e insicurezza.
Infine, il voto svedese diventa importante per il possibile ruolo dei democratici nella prossima legislatura. In campagna elettorale Reinfeldt ha sempre escluso ogni possibile accordo con l’estrema destra, sul modello neo-gollista, ma una qualche convergenza deve essere trovata, oppure si torna a votare. Per ora si sta cercando di avviare un negoziato con i verdi, ma non è da escludere che alla fine il pragmatico Reinfeldt debba piegarsi all’appoggio esterno di Åkesson. Insomma, dopo Austria, Belgio, Olanda e Ungheria, ora anche nella multiculturale Svezia esiste un partito di estrema destra capace di influenzare le dinamiche politiche nazionali ed europee. Rischio o opportunità? Certamente una grande svolta.
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