Di polemiche sulla portata della «novità» introdotta da Matteo Renzi nella politica italiana ce ne sono state in abbondanza, così come con altrettanta abbondanza siamo stati inondati di «convertiti», più meno totali, più o meno sinceri, a quella novità non appena la stragrande maggioranza dei quadri dirigenti del Partito democratico ha capito due cose:
1) che al nuovo leader arrideva il consenso popolare e ciò significava un successo elettorale che era poco saggio buttare dalla finestra; 2) che all’esterno del partito non esistevano più forze in grado di contenerlo e con cui, direttamente o indirettamente, si potesse fare asse per scalzare dal
trono il nuovo capo.
Come sempre la «fortuna» ha giocato un ruolo non insignificante nel consolidare una vittoria ottenuta, va detto, grazie a una singolare caparbietà nel non arrendersi
alle sconfitte precedenti. È una dote dei leader veri che non si fanno piegare dai colpi avversi, ma è ovviamente necessario che il periodo della «traversata del deserto» rappresenti, come in questo caso, un lasso di tempo sopportabile.
Vediamo di ricordare qualche elemento della «fortuna» di Renzi. Innanzitutto c’è stata la singolare abilità di Bersani, che lo aveva sconfitto nella prima tornata di primarie, di confermare il giudizio che su di lui e sui suoi sostenitori aveva dato lo sfidante: gente incapace di raccogliere un consenso popolare sufficiente per vincere davvero le elezioni e così legata ai riti del «niente nemici a sinistra» da farsi battere dai grillini (la cui natura di «sinistra» potrebbe peraltro essere discutibile). Poi è venuta la scelta poco felice di affidare la gestione di una fase di acuta crisi economica e sociale a un personaggio come Enrico Letta: certo un politico degno, ma privo di qualsiasi capacità di leadership, cioè di quella risorsa essenziale per gestire una crisi dove più che di soluzioni tecniche ai problemi (ardue per natura loro) c’è bisogno di muovere sentimenti e passioni per creare fiducia in una possibile rinascita.
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