Domandarsi se l’America Latina sia stata al centro del dibattito elettorale delle presidenziali statunitensi 2020, o se essa sia presente nei programmi dei due candidati, è un esercizio sterile. Dal post Guerra fredda in poi, lo spazio dedicato dalla Casa Bianca agli affari inter-americani o a singoli Paesi della regione è sempre stato esiguo, per non dire nullo. Piuttosto, può essere utile fare un bilancio della presidenza che sta per concludersi e chiedersi se dalla vittoria dell’uno o dell’altro contendente ci si debba attendere, se non proprio una discontinuità nella condotta della politica regionale degli Stati Uniti, quanto meno dei parziali cambi di rotta in merito ai principali dossier e alla gestione dei rapporti con alcune nazioni, a cominciare da quelle “ostili”.
Indipendentemente dal fatto che vinca Joe Biden o che Donald Trump resti alla Casa Bianca, non è quindi ipotizzabile, nel quadriennio 2021-24, un “nuovo corso”, come lasciò intendere l’alba del primo mandato di Barack Obama. Nuovo corso che, sia ben chiaro, non si registrò in quell’occasione con la conseguenza che il più importante, se non unico, risultato conseguito da quell’amministrazione nello scacchiere continentale fu la normalizzazione dei rapporti con Cuba, poi messa in soffitta dall’attuale presidente repubblicano.
Del resto, sin dalle prime settimane della sua amministrazione fu subito evidente a cosa avrebbe improntato il suo atteggiamento nei confronti dei vicini latinoamericani: disinteresse, disprezzo e ostilità. Tre lemmi che ben sintetizzano il modo in cui gli Stati Uniti hanno agito all’interno degli organismi multilaterali regionali e gestito le relazioni bilaterali con quasi tutti i Paesi dell’area. Numerosi sono gli esempi che si potrebbero fare per ricordare come il presidente repubblicano abbia scelto durante la sua presidenza un approccio e una retorica aggressiva e abbia rivolto espressioni ingiuriose e razziste verso le nazioni e i popoli latinoamericani. È sufficiente ricordare la frase, del gennaio del 2018, con chiaro riferimento agli haitiani, salvadoregni e africani, “Perché gli Stati Uniti dovrebbero accettare immigrati da Paesi di merda?”.
Trump non si è però contraddistinto per iniziative palesemente lesive della sovranità delle nazioni del subcontinente. Ha confermato, questo sì, la contrarietà statunitense nei confronti del governo di Nicolás Maduro, ritenuto una dittatura sanguinaria e corrotta. Ed è vero che ha introdotto dure sanzioni nei confronti di esponenti di primo piano del chavismo e ha sostenuto, non solo finanziariamente, la divisa e inetta opposizione venezuelana, sponsorizzando, e poi riconoscendo come presidente ad interim, uno tra i suoi leader meno credibili, Juan Guaidó. Tuttavia, in merito ai rapporti con Caracas egli si è mosso in continuità con i suoi predecessori, Obama e George W. Bush.
Una significativa novità si è registrata nei rapporti con il vicino Messico, ma non per la costruzione del muro lungo il confine tra i due Paesi, cavallo di battaglia ad uso e consumo interno sin dalla campagna elettorale, bensì in merito all’accordo di libero scambio tra Washington, Città del Messico e Ottawa vigente dalla metà degli anni Novanta. La dura critica dell’amministrazione repubblicana al Nafta ha portato alla stesura di un nuovo trattato commerciale, l’USMCa (United States-Mexico- Canada Agreement) tra Stati Uniti, Messico e Canada.
A dire il vero, le relazioni con il Paese confinante sono state cariche di tensioni anche a causa della criminalizzazione dei migranti, tanto più che essa è stata accompagnata da forti pressioni esercitate sul governo di Città del Messico affinché frenasse i flussi migratori provenienti dall’America centrale. Grazie a questa condotta, l’esecutivo Trump ha esternalizzato e spostato molto più a sud dei confini nazionali la gestione migratoria. Affrontata con cinismo e disumanità, tale gestione ha avuto anche l’evidente obiettivo di accontentare la base di consenso ultra-conservatrice e repubblicana in generale. Nel bilancio della presidenza Trump bisogna includere pure discutibili prese di posizione, come in occasione del golpe che in Bolivia ha messo fuori gioco Evo Morales, quando la Casa Bianca ha prontamente riconosciuto l’illegittimo governo guidato dall’autoproclamatasi presidente, la senatrice Jeanine Áñez.
Il cambio di scenario politico intervenuto nel frattempo nella regione, con l’ascesa al potere in alcuni dei principali Paesi di presidenti di destra – Mauricio Macri in Argentina e Sebastián Piñera in Cile - o in sintonia con la sua (non)visione del mondo – si pensi a Jair Bolsonaro in Brasile – gli ha agevolato il lavoro. Detto in altre parole, la fine del cosiddetto ciclo progressista, congiuntamente alla crisi politico-istituzionale ed economica delle nazioni dell’asse di sinistra (Bolivia e Venezuela, con l’Ecuador che dopo l’ascesa alla presidenza di Lenín Moreno si è allineato agli Stati Uniti), ha permesso a Trump di non distogliere la sua nevrotica, rapsodica e istantanea attenzione dalle questioni di politica interna e dai pochi dossier relativi ad altre aree geopolitiche. Per concludere, nel caso in cui Trump dovesse riconfermarsi alla guida del Paese non dovrebbero registrarsi novità di rilievo e la politica regionale degli Stati Uniti proseguirebbe nel solco tracciato negli ultimi quattro anni.
Quali saranno, invece, le principali sfide che dovrà affrontare Biden nel caso in cui dovesse essere eletto? Innanzitutto confrontarsi con una regione devastata dalla crisi pandemica e da quella economica. Secondo la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi il Pil regionale registrerà una diminuzione del 9% quest’anno, con pesanti ricadute in termini di aumento vertiginoso della povertà e della disoccupazione. Biden dovrà poi fare i conti con la crescente influenza di potenze extracontinentali, la Cina soprattutto e, in seconda battuta, la Russia. Per contrastare questa tendenza, c’è da aspettarsi che ricorra agli strumenti della diplomazia e del multilateralismo (almeno a livello retorico), e a vari programmi di aiuto economico per alcuni Paesi o aree. E, in effetti, il candidato democratico e Kamala Harris hanno annunciato un piano teso a migliorare la situazione economica e sociale dell’America centrale. Vero è, però, che questa dichiarazione pare sia finalizzata soprattutto a guadagnare il voto di messicani, centroamericani e caraibici, in pratica, il favore dei latinos in alcuni stati (Texas e Arizona). Trump, al contrario, si è concentrato sulla comunità cubana, tradizionalmente favorevole ai repubblicani, e su quella venezuelana (anti-chavisti), cresciuta molto negli ultimi anni a causa della fuga dal regime di Maduro, comunità, queste ultime, importanti per la conquista di uno Stato come la Florida.
Se Biden dovesse vincere, con Cuba si dovrebbe tornare ai tempi di Obama, mentre nessun cambio di rotta è presumibile con il Venezuela. Anche per il candidato democratico Maduro è un dittatore e Guaidó un leader da sostenere. Per quanto concerne il Messico, l’ex vicepresidente dovrebbe quantomeno mostrarsi più rispettoso del Paese vicino. Poi si dovrà capire se le tornate elettorali in programma nel corso del 2021 in alcuni Paesi, tra cui le presidenziali in Cile, non determineranno un nuovo cambio della mappa politica della regione, con una sorta di ritorno in auge delle forze progressiste. È tuttavia prematuro fare previsioni. Prima, per i democratici, c’è da portare a casa il risultato
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