Di fronte a fenomeni come gli assalti distruttivi a beni privati, o le aggressioni in gruppo a persone, ispirati dalla violenza politica, si è spesso propensi – soprattutto nel caso in cui a esserne protagonisti siano ambienti di destra – a usare indiscriminatamente il termine «squadrismo». Ma la fenomenologia dello squadrismo storico fino a che punto può essere d’aiuto per illustrare un fatto contemporaneo? E fino a che punto è piuttosto inquadrabile fra le tante retoriche del discorso pubblico?
 
La prima osservazione riguarda la violenza politica prima dello squadrismo, almeno nel nostro Paese. Nell’Italia liberale, gli anni iniziali del XX secolo furono costellati da episodi di eccidi consumatisi per lo più in contesti rurali, là dove i conflitti avevano assunto dimensioni rilevanti in virtù della massiccia partecipazione contadina alla mobilitazione politica. Il ruolo attivo svolto dalla forza pubblica in molti di questi casi aveva funto da innesco allo scatenamento della tragedia finale. Non erano mancate, naturalmente, uccisioni dovute a scontri fra partiti o fazioni: l’esercizio della violenza intesa come intimidazione, come deterrente per il controllo del territorio, come duello in una logica quasi tribale da società arretrata, costituiva tuttavia una variante marginale rispetto alle prime prove della politica di massa.
 
Nonostante tutti i limiti, la spinta all’integrazione sociale sviluppata dall’Italietta agiva da forza centripeta rispetto a dinamiche disgregatrici ed eversive. Persino durante la «Settimana rossa» del giugno 1914, quando il fantasma della rivoluzione aveva preso corpo per pochi giorni fra le Marche e la Romagna, la violenza sulle persone era stata assai contenuta, mentre si era dispiegata quella sulle cose, in particolare sui simboli del potere politico e amministrativo.
 
Una novità, fra i primi anni Dieci e l’Intervento, era stata la costituzione di gruppi nazionalisti dedicati alla provocazione e ad azioni dimostrative, anche violente, nei contesti urbani: minoranze di giovani, decise a non lasciare la piazza alle masse organizzate socialiste così come a distinguersi dai notabili liberali. Fra gli antecedenti di queste «brigate» erano gli archetipi dell’associazionismo borghese a sfondo sportivo o culturale: nulla, in origine, di partitico, ma la solidarietà di gruppo intorno a un tema appassionante e condiviso aveva fatto lì le prime prove. Pare difficile, tuttavia, assimilare in toto queste manifestazioni, se non per la presenza dell’elemento studentesco, a quelle affermatesi dopo l’esperienza totalizzante della comunità di trincea.
 
Lo squadrismo successivo alla Prima guerra mondiale rappresentava quindi una rottura rispetto alle modalità note dell’esercizio della violenza politica. La formazione di nuclei di reduci disponibili a un impegno diretto, a entrare nell’arena politica – intesa come «piazza», non come «istituzioni» – attraverso l’antipolitica, è fenomeno arcinoto agli studiosi dell’Europa post-bellica. Meno noto alla vulgata italiana, non certo agli specialisti, è che, fino all’autunno del 1920, gli squadrismi furono diversi, d’ispirazione nazionalista, futurista, paramilitare (gli arditi), fascista. Fra il 1919 e il 1920, in altre parole, la «piazza» italiana, soprattutto al Nord, si presentava popolata di vari soggetti disponibili a distinguersi anche attraverso la violenza: solo nuclei regionali più o meno legati all’Associazione nazionale combattenti avevano cercato uno sbocco parlamentare nel corso delle elezioni politiche del novembre 1919, uscendone tuttavia sconfitti. Lo stesso Mussolini aveva raccolto col suo Fascio poche migliaia di voti. L’antisocialismo evoluto in antibolscevismo aveva, viceversa, trovato conferma nelle urne, in virtù del grande successo del Partito socialista ufficiale (32%), in Lombardia e in Toscana con valori superiori al 40%, che in Emilia toccavano il 60%.
Fra il 1919 e il 1920, la "piazza" italiana, soprattutto al Nord, si presentava popolata di vari soggetti disponibili a distinguersi anche attraverso la violenza
La fragilità politica dei governi di coalizione liberali, formati da gruppi costretti alla
coesistenza per formare esili maggioranze, permise che gli attori istituzionali periferici – dalle prefetture alle questure, ai comandi dell’esercito e dei carabinieri – agissero sui territori seguendo linee di comportamento spesso influenzate dal notabilato più conservatore e da ceti medi imbevuti di nazionalismo. La sindrome da accerchiamento che la proprietà terriera visse nelle campagne al tempo del «Biennio rosso», la paura della rivoluzione alimentata dalla presenza operaia organizzata nelle città, in certe regioni del Centro e del Nord si tradusse nell’esagerata sensazione, diffusa presso l’opinione moderata, che la «piazza» socialista fosse quasi fuori controllo.
 
L’individuazione di attori in grado, con la violenza, di riequilibrare una disparità numerica ritenuta irrecuperabile, in assenza di istituzioni disponibili a intervenire con la forza oltre un certo limite (in realtà il limite fu spesso ampiamente superato), divenne – ad esempio, agli occhi di molte organizzazioni di proprietari padani – un’impellente necessità, resa ancora più urgente dalle imminenti elezioni amministrative dell’autunno 1920. Perché una tornata elettorale pareva così decisiva? Perché la conquista dei Comuni da parte dei socialisti massimalisti significava, per la classe dirigente, la quasi certezza di imposte e tasse alle stelle per finanziare i programmi sociali delle giunte municipali. Il bolscevismo realizzato, nonostante i successi politici di Giolitti, fra l’estate e l’autunno del 1920 sembrava dunque imminente. I massimalisti avrebbero conquistato la maggioranza solo in 2.000 comuni su 8.300, ma in Emilia trionfarono nel 65% dei casi e nel 52% in Toscana.
 
In questo contesto avvenne la «selezione naturale» dello squadrismo, ossia, all’interno di un mondo ancora magmatico di gruppi di estrema destra disponibili alla violenza, della componente più «efficiente», in grado di agire con bastonature e omicidi mirati (sindacalisti, capilega, dirigenti delle Camere del lavoro), distruzioni selettive (circoli, cooperative, sedi di giornali), fino alla minaccia portata direttamente a deputati dell’estrema sinistra. Lo squadrismo come politica criminale territoriale, per un verso asservita e foraggiata dagli agrari e, in alcune realtà, dagli industriali, per altro verso portata a convivere, non senza tensioni, con il «fascismo politico» di Mussolini e Cesare Rossi, s’impose allora, per dilagare nei primi mesi del 1921.
 
A Bologna, uno dei laboratori dello squadrismo, il 4 novembre 1920 si consumò l’assalto e la distruzione della Camera del lavoro, che consacrò il fascio rifondato da Leandro Arpinati come l’organizzazione egemone all’interno della galassia di estrema destra locale. Il 21 novembre, giorno dell’insediamento dell’amministrazione comunale socialista, la violenza si sarebbe scatenata contro Palazzo d’Accursio, proprio mentre il sindaco neoeletto Gnudi si affacciava al balcone per salutare i cittadini convenuti. Fra colpi esplosi dagli squadristi, dalla forza pubblica, dal servizio d’ordine della «guardie rosse» (che gettarono anche delle bombe a mano, colpendo simpatizzanti socialisti), i morti alla fine furono una decina, cui si aggiunse il consigliere di opposizione Giulio Giordani, vittima di colpi esplosi da un aggressore rimasto sconosciuto.
La fenomenologia squadrista è certamente replicabile dal punto di vista della dinamica aggressiva e dello sviluppo delle azioni. È possibile dunque, ed è anche avvenuto, citare lo squadrismo e riprodurlo secondo una modalità allusiva e ammiccante
Il risultato che la destra, estrema o moderata, si augurava, fu raggiunto: la decapitazione dell’amministrazione ancora prima di nascere e la fine della stagione inaugurata dal sindaco Zanardi nel 1914. Violenza fisica selettiva, occupazione dello spazio pubblico attraverso l’imposizione di comportamenti «patriottici» o la negazione di segni «sovversivi», gesti simbolici, distruzione delle sedi avversarie, sfoggio di armi e di mezzi moderni (auto e autocarri), senso d’impunità derivato dal percepirsi come avanguardia, rappresentano alcuni degli ingredienti dello squadrismo. Il principale, tuttavia, fu il dominio della «piazza», il controllo militare dello spazio urbano e rurale: lo squadrismo non era interessato a colpire nell’ombra, quanto piuttosto a rendere evidente la saldatura esibita, provocatoriamente spavalda, fra il programma criminale e la sua esecuzione: fra la promessa, l’attesa e l’effettività dell’atto violento. Imprenditori della paura, certamente; ma, per una quota di ceto medio, anche difensori di un patriottismo minacciato da un insidioso nemico interno, distruttore dell’ordine sociale. In ogni caso, come ha scritto Emilio Gentile, da allora il «metodo terroristico» tracimò in altre province.
 
La fenomenologia squadrista è certamente replicabile dal punto di vista della dinamica aggressiva e dello sviluppo delle azioni. È possibile in altri termini, ed è anche avvenuto, citare lo squadrismo, riprodurlo secondo una modalità allusiva e ammiccante, quasi si trattasse di una drammatica esperienza performativa. Tutto ciò, tuttavia, non ha nulla a che vedere – se non per il tentativo di riappropriazione presentificata - con l’evoluzione dello squadrismo storico da micro-realtà politico-criminale localizzata a movimento numeroso e strutturato a base violenta fra il 1920 e il 1921. Un’evoluzione che non è comprensibile se non nel contesto di quel determinato periodo. È chiaro, infatti, che simili comportamenti, ancora limitati, nell’estate 1920, a poche migliaia di persone in Italia, avrebbero potuto essere facilmente individuati e repressi dalle forze dell’ordine, se le istituzioni, a livello centrale e periferico, si fossero strette a difesa della legalità. Ciò non avvenne. Ma questa è un’altra storia.