Le decisioni e gli strumenti posti in essere per far fronte alla pandemia causata dal Covid-19 hanno impatti importanti su ogni aspetto del quotidiano: lavoro, relazioni, economia, politica, cura. E l’ambito sportivo ha conosciuto, parimenti, una situazione inedita: la sospensione delle attività e una successiva ripresa a differenti velocità per le varie federazioni sportive. Lo slittamento di grandi competizioni internazionali e la sospensione definitiva dei campionati nazionali di tutte le discipline – ad esclusione del calcio maschile professionistico – sono avvenimenti con importanti implicazioni economiche, mediatiche, lavorative. Come sottolineato dall’Epsi (European Platform for Sport Innovation) lo sport è un importante settore economico dell’Ue: ne rappresenta il 2,1% del Pil, impiega 5,67 milioni di persone e genera un indotto significativo trasversale a più settori (trasporti, ristorazione, strutture turistiche). È attualmente difficile stimare le perdite economiche complessive per lo sport e capire l’impatto che la sospensione della stagione 2019/2020 ha avuto sull’intero ecosistema. Per fare un esempio, la Premier Ligue inglese ha calcolato una diminuzione degli incassi del 50% in relazione agli eventi non disputati e alle decurtazioni sui contratti commerciali e di trasmissione (Annual Review of Football Finance 2020).
Anche in Italia è stato soprattutto il calcio maschile professionistico ad animare il dibattito sulla ripresa dell’attività sportiva. Un discorso incentrato sulla disciplina singola più che sul sistema sportivo che, di contro, fatica a trovare spazio nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. Lo spazio sportivo italiano, infatti, è costituito per larga parte da federazioni dilettantistiche, perché limitato è il perimetro definitorio del professionismo sportivo. Ai sensi della legge 91/1981 è professionistico quello sport che è dotato di notevole “rilevanza economica” e/o quello che è riconosciuto come professionistico dalle federazioni internazionali. Ad oggi sono solo quattro gli sport professionistici in Italia: calcio, pallacanestro (serie A1), golf e ciclismo. La legge lascia ampia discrezionalità e demanda di fatto alle singole federazioni la scelta di qualificarsi come professionistiche. Così, un importante numero di atlete/i rimane fuori dallo spazio del professionismo, dalla possibilità di avere determinati diritti e tutele. Inoltre, si crea indirettamente un’ulteriore esclusione: nessuna atleta italiana può essere considerata professionista, perché non è mai stata istituita una lega Pro femminile in nessuna delle discipline olimpiche esistenti (60), nemmeno fra quelle considerate professionistiche in Italia. Le atlete sono tutte, formalmente, dilettanti, in un processo di invisibilizzazione che ne determina un’asimmetria fra queste ultime e i colleghi. Le donne che fanno dello sport il proprio lavoro non hanno accesso ai diritti propri di un contratto di lavoro, alla tutela sanitaria, assicurativa e previdenziale, sono inoltre soggette a “vincolo sportivo” (la possibilità di una società di trasferire ad un'altra un'atleta senza il suo consenso) e, come nel caso del calcio femminile, a un tetto annuale di stipendio. Tutto al fine di rientrare nelle esenzioni fiscali, per le società, previste per il dilettantismo sportivo.
Nessuna atleta italiana può essere considerata professionista, perché non è mai stata istituita una lega Pro femminile in nessuna delle discipline olimpiche esistenti (60), nemmeno fra quelle considerate professionistiche in Italia
Contrastare questa grave mancanza di tutele era già considerata un’urgenza: uno degli emendamenti al disegno di legge di Bilancio 2020 ha fatto cenno, per la prima volta, al lavoro sportivo femminile. Il tentativo è stato quello di ovviare a uno dei maggiori scogli per il passaggio al professionismo, che è di natura economica: la sostenibilità degli oneri contributivi per federazioni e società. Gli sgravi fiscali, che hanno durata limitata ai tre anni e un tetto massimo di 8.000 euro, sono stati visti più come dichiarazioni di intenti che come misure effettive. L’emendamento non ha eliminato i profili di discrezionalità della l. 91/1981, ma la proposta è stata comunque accolta come un’apertura verso la futura modifica delle previsioni sul professionismo sportivo.
In questo quadro di precarietà per sportivi e soprattutto sportive, si riversano le conseguenze, ancora non sufficientemente indagate, dell’emergenza sanitaria. All’interno del decreto Cura Italia (poi L. 24 aprile 2020 n. 27) sono state elaborate misure di sostegno per il lavoro sportivo (cassa integrazione in deroga per lavoratori/trici dipendenti; indennità di 600 euro estesa ad autonomi/e e collaboratori/trici delle società sportive e associazioni dilettantistiche). Tuttavia, atlete e atleti dilettanti si sono trovati ad affrontare l’interruzione dell’attività lavorativa senza alcuna tutela: accordi economici e durata dei contratti – definiti attraverso scritture private – sono stati demandati a contrattazioni fra singole/i atlete/i o singole squadre e la società sportiva di riferimento.
Atlete e atleti dilettanti si sono trovati ad affrontare l’interruzione dell’attività lavorativa senza alcuna tutela: accordi economici e durata dei contratti sono stati demandati a contrattazioni fra singole/i atlete/i o singole squadre e la società sportiva di riferimento
Questa asimmetria presenta anche implicazioni di genere, come si può vedere nel caso del calcio: il dibattito sulla necessità di riprendere l’attività calcistica ha di fatto riguardato solo il calcio maschile. Il tentativo di riavvio delle attività della massima serie femminile si è invece scontrato fin da subito con un evidente limite: non tutte le società avrebbero potuto sostenere i costi dei nuovi protocolli sanitari a causa di una generale crisi di liquidità. In generale, l’emergenza ha portato alla luce la fragilità del mondo calcistico femminile, aggravando condizioni di partenza diseguali, fra cui un significativo gap salariale rispetto ai colleghi maschi. Significative differenze sono presenti poi all’interno dello stesso campionato femminile: solo 8/12 squadre di serie A sono affiliate ai club professionistici maschili e godono di una struttura societaria economicamente solida. Questo si evince dai provvedimenti delle singole squadre: solamente tre hanno deciso di mantenere intatti gli accordi economici con le calciatrici, per le altre vi è stata una rinegoziazione del rimborso. La federazione italiana gioco calcio si è trovata ancora una volta a gestire con un doppio standard le due categorie, maschile e femminile, con differenti richieste e tutele dell’attività lavorativa.
Questo esempio mostra come la categoria del genere porti all’emersione degli ostacoli che limitano la parità fra atleti e atlete, mostrando come lo sport non sia uno spazio neutro. A partire dalla consapevolezza che l’attuale situazione abbia esasperato le diseguaglianze strutturali già presenti, le politiche devono progettare azioni e implementare strumenti che contrastino le asimmetrie e puntino alla piena ed effettiva tutela delle lavoratrici, come dei lavoratori, dello sport. Per farlo è necessario avviare nuove ricerche, attualmente assenti nel panorama nazionale, in grado di offrire un quadro della situazione del lavoro sportivo italiano ed evidenziare le recenti implicazioni dell’emergenza sanitaria, con uno specifico riferimento alle atlete e alla necessità del riconoscimento del loro status.
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