La vasta gamma di problemi che le politiche pubbliche cercano di affrontare e risolvere diviene sempre più ampia e include sia minacce di ordine globale (cambiamento climatico, pandemie, attacchi terroristici), sia condizioni che coinvolgono singoli individui, comunità o gruppi sociali più estesi (obesità, discriminazioni, stili di vita non salutari). Secondo un’interpretazione che ha riscosso un crescente successo negli ultimi anni, le questioni elencate hanno una causa comune: si tratta di problemi comportamentali.
In buona sostanza, esistono almeno due fattori che condizionano il comportamento individuale e collettivo e impediscono agli attori sociali di prendere decisioni razionali e di agire di conseguenza. In primo luogo, la mente umana è strutturata in modo tale che spesso gli agenti si affidano a processi mentali veloci, automatici, associativi che non richiedono sforzi: ciò consente di «risparmiare» energie cognitive ma al tempo stesso rende dipendente il comportamento da bias che generano scelte non razionali. In secondo luogo, le decisioni subiscono molto spesso la pressione sociale e tendono a uniformarsi a ciò che un gruppo di riferimento sceglie e fa. Numerosi studi di psicologia empirica e comportamentale hanno ormai messo in crisi la tradizionale dell’homo oeconomicus: gli agenti sono dotati di preferenze, cioè di desideri o bisogni, disposti in modo gerarchico in corrispondenza dei beni che desiderano di più o di cui hanno più bisogno e cercano di soddisfare queste preferenze utilizzando le risorse scarse – che possono essere di natura materiale, come il denaro, o di natura immateriale come il tempo – e le informazioni di cui dispongono.
Questi dati empirici hanno consolidato l’idea che le politiche pubbliche possono essere tanto più efficaci nell’incidere sul comportamento individuale e collettivo e quindi nel risolvere i problemi globali e locali quanto più tengono conto di questa nuova rappresentazione dell’agire. Questa convinzione è alla base, ad esempio, dell’approccio dei nudge, spinte gentili: una spinta gentile è un intervento che, sfruttando le tendenze psicologiche degli individui, li inclina a compiere certe scelte invece che altre, senza però impedire altre opzioni e senza modificare in misura significativa gli incentivi economici. Ad esempio, tutti tendiamo a una certa «inerzia decisionale», per cui siamo riluttanti a compiere scelte che alterino la situazione data, anche quando un mutamento potrebbe essere benefico. Si tratta del cosiddetto bias dello status quo.
Gli "architetti della scelta" possono intervenire impostando la situazione di partenza nel modo che essi ritengono più benefico per gli agenti coinvolti, contando sul fatto che essi non la cambieranno pur avendo la libertà di farloGli «architetti della scelta» possono intervenire decidendo di impostare la situazione di partenza nel modo che essi ritengono più razionale o benefico per gli agenti coinvolti, contando sul fatto che, con tutta probabilità, essi non la cambieranno pur avendo la libertà di farlo. Un esempio concreto è rappresentato da politiche pubbliche che considerano tutti i cittadini donatori di organi alla loro morte (situazione di default), anche se chiunque può esprimere un proprio dissenso alla donazione e quindi cambiare il proprio status. Alcuni lo faranno, mentre altri (si presume la maggioranza) si conformeranno alla condizione di default. Oppure, negli Stati Uniti i datori di lavoro possono impostare il piano pensionistico che ritengono migliore per i loro dipendenti, facendo affidamento sul bias dello status quo.
La prospettiva di utilizzare queste conoscenze sul funzionamento della mente per migliorare le politiche di gestione dei cittadini ha avuto due importanti effetti. Sul piano teorico, si è definito il «paternalismo libertario» (proposto e poi difeso da C. Sunstein e altri), un approccio che mira a coniugare il paternalismo (le persone sono orientate a fare scelte più razionali e più benefiche per loro, secondo il loro concetto di benessere) e liberalismo (nessuno è costretto a comportarsi in un certo modo), facendo leva prevalentemente sul meccanismo della spinta gentile. Sul piano pratico, alcuni governi hanno istituito appositi uffici, commissioni o unità incaricati di implementare le spinge gentili e «deregolamentare» la condotta individuale e collettiva in vari settori (si veda, ad esempio, la Nudge Unit voluta dall’allora Primo ministro del Regno Unito David Cameron).
Ci si può chiedere se l’uso di spinte gentili equivalga a una manipolazione del comportamento e in che modo gli architetti della scelta possono assicurare di orientare le scelte secondo l’idea di benessere che le persone realmente hanno.
Secondo alcuni autori, non tutte le spinte gentili sono manipolatorie, ma lo sono quegli interventi che non coinvolgono le capacità di attenzione e deliberazione delle persone a cui sono rivolte o distorcono il «coinvolgimento pratico» della persona con il mondo. Nel primo caso, le spinte gentili agiscono sulle risposte automatiche e inconsapevoli ed escludono che il comportamento sia il prodotto della riflessione consapevole del soggetto, mentre nel secondo caso compromettono l’adeguatezza del comportamento con cui la persona reagisce a certe sollecitazioni esterne.
Sono diversi i modi in cui si può influenzare in modo manipolatorio una persona: amplificare stati emotivi, instillare credenze false, sfruttare fobie e altre debolezze sono modi per evitare che la persona manipolata rifletta sulla situazione e deliberi su cosa fare. Ad esempio, una regola di default rende l’opzione più saliente quella preimpostata dagli architetti del sistema senza che però il soggetto che vi aderisce sia pienamente consapevole di quale sono le ragioni che ha per non cambiare lo status quo. In questo caso, la spinta gentile non traccia in modo adeguato le ragioni, non consente in molti casi di riflettere su quali sono le considerazioni che si hanno per scegliere in un modo o nell’altro e induce risposte non ideali perché non pienamente sensibili a ragioni.
Non è inoltre chiaro in che modo gli architetti della scelta possano sapere qual è l’idea di benessere che effettivamente guida il comportamento delle persone. In generale, esistono varie teorie filosofiche del benessere, che sono tutt’oggi al centro di un ampio dibattito. I paternalisti libertari sembrano oscillare tra l’idea che lo standard di benessere da tenere in considerazione è di tipo «ideale», per cui i nudge dovrebbero orientare verso le scelte che gli agenti prenderebbero se fossero dotati di informazioni complete e capacità cognitive e di autocontrollo illimitate, e uno standard più «realistico», che tiene conto del pluralismo delle concezioni che gli individui hanno del proprio benessere. In questo caso, tuttavia, non è chiaro in che modo gli architetti della scelta possano avere accesso epistemico a queste concezioni. È ragionevole pensare che in linea generale tutti gli individui abbiano a cuore salute, reddito e altri beni, ma possono variare le gerarchie tra questi beni, soprattutto in quelle situazioni in cui due o più di essi entrano in tensione fra di loro.
Alcune delle preferenze particolari, poi, dipendono in modo complesso dall’«identità pratica» degli agenti, ossia dall’insieme di identificazioni, cure, impegni che ci rende ciò che siamo. Anche quando in alcune aree della nostra vita non abbiamo preferenze specifiche e determinate, alcune opzioni possono essere più o meno compatibili con la nostra identità pratica. Si pensi alle situazioni di fine vita, in cui anche senza avere maturato alcun desiderio se ricevere o non ricevere alcuni trattamenti medici salva-vita, i loro effetti possono causare condizioni di vita che sono più o meno coerenti con il nostro ideale di dignità del vivere. Una spinta gentile che orientasse verso scelte coerenti con l’identità pratica non è manipolatoria, né si rivela genuinamente paternalistiche. Non è però del tutto chiaro in che modo gli architetti della scelta possono appurare quale sia l’identità pratica degli agenti e quindi evitare di manipolarli.
Una spinta gentile verso scelte coerenti con l’identità pratica non è manipolatoria, né si rivela paternalistica, ma non è chiaro come gli architetti della scelta possano appurare quale sia l’identità pratica degli agentiNonostante questi problemi, una politica che prenda sul serio i dati empirici relativi alla nostra psicologia è sicuramente desiderabile, perché può consentire di raggiungere obiettivi importanti in modo più efficace. Esistono altre possibilità di raggiungere questa integrazione tra dato scientifico e politiche pubbliche, che rinunciano all’impianto complessivo del paternalismo libertario. Una di queste è interpretare diversamente i vari bias, non trattandoli più come errori ma come forme di «razionalità situata», ossia euristiche veloci e immediate che, seppure con limiti, consentono nella maggior parte delle situazioni di affrontare con successo le sfide poste dall’ambiente. Il compito è quindi quello di individuare quale approccio nei singoli contesti consente di mettere gli individui nelle condizioni di avere successo cognitivo e decisionale nei vari contesti.
Un altro approccio sfrutta i boost, ossia interventi che mirano a potenziare le abilità e la conoscenza degli individui e le loro capacità decisionali. Esempi pratici di interventi di questo tipo consistono nella formulazione delle informazioni sulla probabilità degli esiti delle varie opzioni tra cui l’individuo può scegliere in termini di frequenze naturali o di tassi di rischio assoluto (ciò rende più intellegibile l’informazione); oppure in programmi educativi che permettono alla popolazione di acquisire conoscenze di base nei settori in cui gli agenti umani sono chiamati a fare scelte, anche rilevanti per la loro vita (cura della salute, alimentazione, finanza, pensioni ecc.) e in cui si possono apprendere i fatti e le procedure più importanti per riuscire a intervenire con efficacia e rapidità ed evitare conseguenze dannose (ad esempio come riconoscere i primi segni dell’infarto e come chiamare correttamente i soccorsi).
Infine, si possono delineare iniziative di deliberazione pubblica, in cui i cittadini (o gruppi qualificati) vengono debitamente informati e chiamati a discutere e decidere quale politica pubblica adottare su un determinato problema; oppure programmi che inducono i cittadini a riflettere e dibattere sulle questioni più generali a cui l’uso di spinte gentili cerca di fornire una soluzione. In questo modo, la spinta gentile non svolge più il ruolo di mero pungolo invisibile del comportamento individuale, ma un mezzo il cui uso è giustificato da ragioni pubblicamente trasparenti. In questo modo si tenta di eliminare gli aspetti più manipolatori delle spinte gentili, preservando una relazione di fiducia tra cittadini, governi e privati.
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