Tutte o quasi le forze politiche che hanno avuto consistenti, ancorché insufficienti, consensi alle recenti elezioni vogliono diminuire subito le tasse (chi in un modo, chi in un altro): è pensabile che una spending review efficace sia meno urgente, ad esempio, del taglio dei rimborsi ai partiti (per fare uno degli esempi più gettonati)? E se i mercati tornano a lanciare segnali di grande allarme, torniamo ai tagli lineari (come più o meno ha fatto il governo Monti)?
In realtà è chiaro a tutti che i margini di manovra del prossimo governo risulteranno molto limitati, ma a questa consapevolezza segue spesso la precisazione (giusta di per sé) che la scuola, la sanità, l’assistenza, la cultura e la ricerca non possono essere ulteriormente penalizzate e che gli enti locali sono sull’orlo della chiusura (vale a dire il 90% della spesa pubblica). Il risultato diventa che, in caso di necessità, l’unica soluzione praticata/praticabile sarebbe ancora quella più iniqua, vale a dire appunto i tagli lineari.
Io credo sia indispensabile un’alternativa, da praticare in pochi mesi, a livello centrale e nei singoli enti, compresi i comuni, non limitata agli aspetti economico-finanziari, ma che investa il perimetro delle politiche pubbliche, la finanza pubblica e l’organizzazione dei servizi pubblici. Mi spiego brevemente.
In primo luogo va ridefinito il perimetro delle politiche pubbliche, che si è allargato progressivamente a partire dagli anni Ottanta. È impensabile l’ipotesi di salvare il nostro modello di Welfare e contemporaneamente mantenere intatto il «portafoglio servizi» dei vari enti. Ad esempio, se l’educazione e la formazione sono priorità, non è detto che lo siano le iniziative complementari di corsi di ogni tipo, spesso finanziate dai comuni. Se la cultura è una priorità, non è detto che debbano essere finanziate con risorse pubbliche molteplici iniziative di spettacolo che potrebbero andare a carico degli spettatori e degli sponsor, e così via. Nella mancata ridefinizione di questo perimetro si annida il vero costo della politica.
Ridisegnare il perimetro delle policies vuol dire anzitutto ridefinire il target dei servizi erogati, in linea generale passando da criteri di tipo universalistico a criteri selettivi (ovviamente la selettività si declina in modo diverso a seconda del tipo di policy, in base al reddito ma non solo).
Ridefinire i confini delle policies può voler dire razionare il servizio, operando sulla possibilità di accesso al servizio stesso: le code agli sportelli o le liste di attesa in sanità rappresentano una modalità di razionamento. Avere una gestione strategica del servizio, facendo in modo ad esempio in una Procura della Repubblica di gestire in modo seriale o con l’archiviazione le questioni bagatellari o in procinto di essere prescritte (senza intasare di procedimenti Uffici Gip e Tribunale) significa nei fatti selezionare intenzionalmente l’accesso al servizio giustizia e il suo «razionamento», senza lasciarlo al caso determinato dal tempo di iscrizione del procedimento.
Infine una policy può essere ridefinita riprogettando le componenti del servizio, in particolare le componenti accessorie, che forse non ci sono più le condizioni per garantire, ma la cui eliminazione non è detto debba privare del servizio nella sua parte core (per esempio: è possibile garantire i servizi educativi anche senza trasporto degli alunni, se non ci sono le risorse per pagarlo?).
In secondo luogo, il finanziamento. L’introduzione di misure selettive di partecipazione alla spesa in base al reddito potrebbe rappresentare un modo per risolvere i problemi di finanziamento, senza modificare radicalmente il sistema (la riforma dell’Isee è già pronta, basta formalizzare l’ultimo atto).
In terzo luogo, l’organizzazione dei servizi. Non si tratta solo di eliminare sprechi e inefficienze (a partire dai sempre giustamente citati sistemi di acquisto), cosa ovviamente da fare, ma senza illudersi che i problemi si risolvano solo in questo modo. È la strategia di organizzazione dei servizi che produce un certo livello di costi e di razionamento della produzione. Se il servizio sanitario è focalizzato sull’ospedale, i costi sono di un certo tipo e l’efficacia non necessariamente massima. Ma se rifocalizzo l’organizzazione del servizio, riorganizzando la medicina di base (vedi proposta Balduzzi) e, dando più spazio alla prevenzione, posso tagliare posti letto senza diminuire il livello di servizio (anzi migliorandolo) ma aumentando l’efficacia, magari prevedendo anche la partecipazione attiva e strutturata dei cittadini a certe attività tramite il volontariato. Certamente i programmi di riorganizzazione non fanno ottenere risultati di risparmio in tempi brevi, ma bisogna incominciare, non con una nuova legge, ma con programmi simili alle esperienze di open innovation che si stanno diffondendo in tutto il mondo.
È impossibile affidare la spending review alla politica. Al centro come in periferia, mette in causa il ruolo della dirigenza. Diamo per scontato (anche se spesso non lo è) un suo ruolo attivo nella lotta agli sprechi, ma dobbiamo anche cominciare a chiarire che ciò non basterà. È molto difficile che il ridisegno del perimetro delle policies lo facciano i politici (e certamente non da soli). Essi finora hanno per lo più preferito i tagli lineari (decisi dal Tesoro o dall’assessore al Bilancio) all’assunzione diretta di responsabilità di scelte impopolari.
Il ruolo centrale svolto dal management pubblico nei processi di policies è assolutamente ovvio per gli addetti ai lavori, siano appunto dirigenti pubblici, esperti o studiosi. Meno scontato nell’immaginario collettivo, nell’opinione pubblica, nei media, nei quali l’«ideologia» della separazione tra indirizzo (dei politici) e gestione (intesa spesso come mera esecuzione da parte della burocrazia) finisce spesso per presentare il ruolo della dirigenza come freno a processi decisionali ben altrimenti efficienti. L’ipertrofia del ruolo politico ha portato a sottovalutare questo ruolo, ma qualsiasi intervento riguardante le Pubbliche Amministrazioni non può non esplicitare come la dirigenza interviene (nel bene e nel male) in modo rilevante nelle policies.
Intanto ci vuole la definizione di una sorta di PA cliff, che obblighi gli enti a formulare proposte efficaci entro un certo numero di (pochi) mesi, pena i tagli lineari. Sarebbe stato sensato e possibile affrontare questo programma per tempo, avendo di fronte un periodo congruo, ma oggi serve un programma che dia risultati in tempi ragionevolmente brevi: si è continuato a rinviare e ancora oggi qualcuno si illude di poter far tornare al potere il «partito unico della spesa pubblica» solo tagliando un po’ di costi della politica in senso stretto.
In secondo luogo, un programma rapido di comunicazione a politici e dirigenti (centrali e periferici) e alla popolazione, con casi, esempi e criteri: gli esempi virtuosi dai quali copiare ci sono e sono più numerosi di quanto si scriva, basta copiare bene; responsabilizzare il management, a partire dai punti di forza delle amministrazioni, è l’unico modo per favorire l’innovazione (che cosa ha prodotto davvero la «guerra ai fannulloni»? Quale impresa avvierebbe un programma di change sottolineando solo le proprie debolezze?).
Infine un monitoraggio dei risultati, delle difficoltà, delle soluzioni adottate, proponendo una metodologia che costringa a valutare, anche con i numeri, i risultati.
Niente altre riforme della PA, per favore, e per il momento nessuna legge.
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