Il giorno dell’inaugurazione della mostra di Saul Steinberg in Triennale (aperta fino al 13 marzo) si respirava un clima quasi euforico. In tempo di pandemia i vernissage sono contingentati, organizzati per fasce orarie, ma gli avamposti della «brigata Steinberg» potevano finalmente constatare che il loro idolo era tornato a casa, o almeno in una delle tappe – Râmnicu Sărat, dove nasce nel 1914; Bucarest; Milano (dal 1933 al 1941); l’internamento; il viaggio verso gli Stati Uniti; il periodo nell’esercito americano e infine, dopo la guerra, New York, dove muore nel 1999 – di una vita dapprima nomade («l’ebreo errante»), poi relativamente stanziale, tra la città e gli Hamptons, di uno dei grandi personaggi del XX secolo.
Un’opera in mostra, École de Paris vs. École de New York (1955) coglie con perfetto sincronismo, l’oscillazione del pendolo tra Europa e Stati Uniti, quando la metropoli americana si accinge a diventare la «capitale del XX secolo». Un primato che Steinberg ha contribuito a consolidare soprattutto attraverso le copertine e le vignette del «New Yorker», il sofisticato settimanale highbrow che sta un gradino sopra la cultura di massa con cui gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, hanno invaso prima l’Occidente e poi il resto del mondo
Quel giorno di ottobre i tre curatori (Marco Belpoliti, Italo Lupi e Francesca Pellicciari) erano attorniati e congratulati da fan e sconosciuti. «Finalmente incontro qualcuno più vecchio di me!», così si felicitava Bico Belgiojoso (classe 1938) con Lupi, a cui si deve l’idea della mostra e, insieme a Ico Migliore e Mara Servetto, il suo allestimento. Italo, nato nel 1934, è ormai il decano di quella classe «creativa» milanese (architetti, designer, grafici, illustratori) per cui Steinberg è stato un ispiratore di giochi tra immagini e parole, e si schermiva, ma in mattinata, durante la conferenza stampa, gli è stata tributata una standing ovation e con civetteria lo ricordava al figlio di Lodovico Barbiano di Belgjoioso, un componente dei BBPR, lo studio di architetti che, partendo da Milano, fu tra i principali irradiatori del Movimento Moderno nel nostro Paese. Steinberg li conobbe probabilmente per il fatto che Peressutti, figlio di un ingegnere friulano, era cresciuto in Romania, mentre con Ernesto Nathan Rogers, la mente teorica del gruppo, erano evidenti le affinità elettive (l’attitudine cosmopolita, il rapporto tra tradizione e modernità). Furono quest’ultimi a procurargli la stanza sopra il Bar del Grillo, una latteria a cui Peressutti e Rogers diedero un nuovo volto nel quartiere di Città Studi, che divenne la sua residenza negli anni della bohème milanese.
Steinberg non fu un gran studente, piuttosto fu attratto dalla vita culturale della città che, nonostante il fascismo, era abbastanza vivace e attenta a quel accadeva nelle principali capitali europee. Presto conobbe Aldo Buzzi, l’amico di una vita, poi Giovanni Guareschi e Cesare Zavattini, che lo ingaggiarono nel settimanale umoristico «Bertoldo», allora popolarissimo, e a cui aspiravano a collaborare, in qualche caso riuscendovi, i giovani Federico Fellini e Italo Calvino, da allora grandi ammiratori di Steinberg. I disegni del «Bertoldo» e di «Settebello», altra rivista satirica dell’epoca, rivelano in Steinberg un umorismo surreale, forse ancora un po’ timido, ma un quadro dei primi anni Quaranta, una mappa immaginaria della Liguria, ne testimonia la raggiunta maturità. È un’opera che inaugura un filone, le prospettive infinite, che è diventato poi uno dei suoi marchi di fabbrica.
Steinberg è stato per tutta la vita l’uomo con la matita in mano, quasi un’appendice da cui non si separava mai: così, dopo le conseguenze delle leggi razziali, disegna la cella di San Vittore, poi la camerata del campo d’internamento di Tortoreto, con precise didascalie che ne descrivono gli ambienti. A quel punto non può più essere un umorista che coglie sorridendo le spigolature della nostra società, le circostanze della vita lo rendono uno degli interpreti più profondi, e allo stesso tempo leggeri - il miracolo sta nell’equilibrio tra le parti - del XX secolo. Il commentatore critico del proprio tempo. Una delle opere più impressionanti ed esplicite in mostra è l’Alfabeto per Pietro Nivola, il figlio di Costantino, l’artista di origine sarda, suo grande amico e anche lui emigrato negli Stati Uniti. L’opera è del 1944 e le voci illustrate riguardano: Antisemita, Bomba, Comunista, Dittatore, Emigrante, Fame, Guerra, Hallo Joe, Italia, Jeep, Kamerad, Lucky Strike, Merda (Mussolini), Nazionalismo, Officina, Partigiano, Roosevelt e Stalin, Tiranno, Unità, Viva. Manca la Z ma l’alfabeto è un perfetto oroscopo dell’intero Novecento, un secolo di totalitarismi, di intolleranze e di speranze, dell’avvento delle masse nella storia e l’opera rende esplicito il fatto che se le guerre si vincono con le armi, per vincere il dopoguerra servono le sigarette americane.
Steinberg fu uno straordinario cronista degli ultimi anni del conflitto, trascorsi su più fronti (Cina, India, Nord Africa, Italia) nell’OSS (Office of Strategic Service) con compiti di propaganda. I disegni documentano i bombardamenti, ma anche quell’autentica rivoluzione sociale che fu la risalita degli Alleati lungo la nostra Penisola, quando due civiltà si trovarono a confronto e fu subito chiaro a tutti quale sarebbe stato il nostro futuro. In mostra è esposta una bellissima lettera di Zavattini all’amico del 2 giugno 1946, il giorno del referendum istituzionale, una data che segna simbolicamente il tramonto di un’epoca. Steinberg vorrebbe che l’amico lo raggiungesse a New York, dove per una mente così vulcanica le opportunità potrebbero essere infinite. Risponde Za: «Non riuscirei a stare lontano dall’Italia più di un mese all’anno, ma un mese entro l’anno spererei proprio di passarlo all’ombra dell’infelicità degli americani». Prosegue: «più dei loro libri, mi piacerà guardarli e pedinarli». Come nota Gabriele Gimmelli nel catalogo della mostra (che catalogo non è, ma un lemmario steinberghiano): «Una frase inconfondibilmente zavattiniana, ma anche steinberghiana: di lì a poco, infatti, l’artista incomincerà la sua personale "scoperta dell’America", in auto o in pullman, osservando con occhio da antropologo i suoi abitanti”.
Steinberg sarà sempre grato agli Stati Uniti di avergli assicurato il benessere personale e la libertà individuale (resterà sempre nettamente anticomunista), ma è uno spietato osservatore dell’american way of life. Le sue ossessioni, i temi che ricorrono, sono l’artificiosità delle donne americane, il tacchino simbolo del Thanksgiving, le automobili che hanno sostituito le persone annullando la street life, le pubblicità al neon, i diner (fa suo il consiglio di Somerset Maugham di fare tre prime colazioni al giorno per neutralizzare gli effetti del cibo americano), il baseball, i motel, le majorettes, gli interni che mescolano casualmente gli stili di arredo (neogotico e Bauhaus), i vuoti della California prima delle piscine di David Hockney. Quello che più lo attrae, mi pare, è ritrarre la nascita di una nuova civiltà, una società di sradicati dove è necessario inventare una tradizione, con il mondo artificiale che prende il posto di quello naturale. Il corrispettivo letterario di queste esplorazioni etnografiche lo troviamo nell’Incubo ad aria condizionata (1941), il viaggio americano di Henry Miller, o nella Route 66 percorsa da Humbert Humbert in Lolita (1955) di Vladimir Nabokov. I disegni del periodo americano vanno letti diacronicamente rispetto ai mutamenti della società, da Truman alla restaurazione reaganiana e dei suoi successori. Si nota come, col passare degli anni, i colori diventano più acidi e il tratto si indurisce.
Steinberg è anche molto attento a quel che avviene sulla scena artistica contemporanea. Gli anni trascorsi in Italia, i regolari ritorni in Europa dopo la guerra, gli hanno fatto conoscere da vicino tutta lo svolgimento della storia dell’arte occidentale. La curiosità, sua inesauribile musa - Steinberg è un attentissimo antropologo dei comportamenti di massa, ma diffida del singolo, oltre ad avere una vena di misoginia che riaffiora qua e là - lo avvicina alle avanguardie europee di cui, pur da artista figurativa, non può non tener conto (Picasso, Klee, Mondrian che si diverte a falsificare, ma il vero/falso è un altro dei suoi temi). Di fatto la storia dell’arte è un inesauribile magazzino da cui pesca a piene mani. Gioca, per così dire, di rimessa: pur essendo un artista a tutto tondo, che ci tiene a conoscere personalmente Giacometti e Picasso, a essere amico e a collaborare con Calder, Nivola e altri grandi artisti, non contraddice chi lo definisce, secondo un’ideale graduatoria, disegnatore, vignettista, cartoonist. Questo lo rende libero di osservare, criticare, a volte omaggiare, i fenomeni artistici coevi, dall’action painting alla pop art. È un discorso che andrebbe dimostrato sulle opere, ma di fatto Steinberg è anche uno straordinario critico degli sviluppi dell’arte novecentesca. È anche uno sperimentatore di tecniche miste, collages, fa ampio uso della tipografia nelle sue opere. Tra le autodefinizioni che si possono leggere nelle molte interviste ora recuperate nella nuova edizione della monografia che gli dedica Riga (Quodlibet, 2021), a cura di Marco Belpoliti, Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, una forse si avvicina più di altre a fissare una personalità così sfuggente: «Sono uno scrittore. Disegno perché l’essenza di uno scritto riuscito è la precisione e perché il disegno è un modo di espressione preciso». Ci si potrebbe chiedere a questo punto che tipo di scrittore sia stato, ammesso che la definizione abbia un valore. Direi uno scrittore morale, un moralista che osserva i costumi della sua epoca. Utilizzando il disegno non ha però bisogno di ricorrere una lingua e questo lo rende universale, davvero uno dei grandi personaggi che resteranno del secolo scorso.
Il compito che la mostra si assegna, riannodare il legame tra l’artista e l’Italia, in particolare con Milano, trova il suo svolgimento più compiuto con l’esibizione dei quattro leporelli (strisce di carta piegati a fisarmonica) preparati da Steinberg, su invito dei BBPR, per il Labirinto dei ragazzi installato nel Parco Sempione in occasione della X Triennale del 1954, ed esposti ora per la prima volta. Un’intera sezione è dedicata alla ricostruzione della vicenda attraverso documenti d’archivio ed è molto interessante notare, oltre a ritrovare un campione dell’arte steinberghiana che utilizzò per l’occasione la tecnica dello sgraffito (decorazione a fresco), il suo interesse per avvicinare le nuove generazioni all’arte (nello stesso 1954 esce per le Edizioni di Comunità, Educare con l’arte di Herbert Read nella traduzione di Giulio Carlo Argan). Come scrisse Rogers invitandolo a collaborare: «non ci piace la parola "Museo”». Dell’altra opera milanese, il graffito per la palazzina Mayer di via Bigli, restano solo le fotografie di Ugo Mulas, essendo stato cancellato da una sciagurata ristrutturazione. Avviandosi verso la fine della mostra si nota come negli ultimi anni sia avvenuto un ripiegamento verso il privato. La società gli interessa di meno e passa sempre più tempo nel buen ritiro degli Hamptons. Conversa al telefono con lo scrittore rumeno Norman Manea per ricostruire la topografia della Bucarest della giovinezza, oppure disegna a memoria la Milano degli anni Trenta, la «Milano-Bauhaus” in cui è evidente l’impatto con la modernità che allargò il suo immaginario.
Chi è stato Saul Steinberg? In una foto famigliare del 1925 guarda dritto nell’obiettivo con l’aria di uno che è sicuro di farcela. Osservandolo nei ritratti in mostra, raramente si concede un sorriso e assomiglia, di volta in volta, a un fratello dei fratelli Marx, a un personaggio di Maus di Art Spiegelman, forse un testimone reticente dell’Olocausto, a un artista consapevole del proprio successo planetario ma che passa il tempo a giocare a nascondino con la jet society e si rilassa solo coi vecchi amici milanesi e pochi altri. Alla fine del percorso espositivo si trova un’intervista che, nel 1967, gli fece Sergio Zavoli suo ammiratore dai tempi del «Bertoldo», nella casa-studio di New York. Dura circa 30 minuti e, anche se è reperibile in rete, vale la pena di fermarsi a guardarla perché è molto bella, superato un lieve spaesamento perché la voce doppiata assomiglia alla versione italiana di Stanlio. Subito vien fuori il maestro di paradossi. Definisce i grattacieli «labirinti verticali» abitati da minotauri che guardano la Tv. Vive bene in America perché è «un Paese dove si vive senza illusioni” e che gli garantisce l’invisibilità, l’anonimato. Gli Stati Uniti sono un paese di gente in maschera, la donna quando invecchia si veste da giovane. È una società che elimina il problema della morte. Steinberg parla volentieri del proprio lavoro: definisce il disegno «la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni” rispetto alla pittura e alla scultura prigioniere della retorica del gesto. In uno dei rari momenti autobiografici rievoca gli anni di guerra: portare l’uniforme lo rendeva invisibile mentre in compenso aveva modo di osservare con agio gli altri. Di sé dice: “Sono una mano che disegna e basta». Preferisce mettersi al tavolo di lavoro tra matite, forbici, pastelli, colla, dimostrazione palese che ogni processo artistico nasce dall’artigianato, dall’uso dei ferri del mestiere. Davanti alla cinepresa comincia a disegnare delle linee. La linea perfetta è una retta da A a B - chissà se conosceva l’aforisma del suo ammiratore Ennio Flaiano: «In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco» - poi comincia a fare dei ghirigori che diventano ritratti, esteriori e interiori, di uomini e donne, poi si trasformano in ambienti.
Nell’ultima parte dell’intervista indossa una maschera costruita per nascondersi «agli altri e a sé stessi», commenta acutamente Zavoli. È un gioco e insieme un paradosso, ma a me viene in mente quel quadro di Ben Shahn (un artista ammirato da Steinberg) in cui denuncia la brutalità nazista ritraendo un uomo con la testa incappucciata mentre sul suo corpo un telegramma denuncia la cancellazione di un villaggio in Cecoslovacchia.
Le ombre del XX secolo si sono allungate anche sul genio di Steinberg.
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