Quando i Rolling Stones sono venuti in Italia, e come prima esibizione hanno cantato al Palazzo dello Sport di Bologna, mia moglie ed io abbiamo preso i biglietti e ci siamo andati con i nostri due figli più grandi. Un po' ci spingeva la civetteria di sorprendere i nostri figlioli con una proposta impensata (e graditissima), e un po' il nascosto intento pedagogico di vaccinarli con una dose opportuna e tempestiva, dato che essi ammirano con grande entusiasmo (e non senza preoccupazione nostra) i cantanti beat e i capelloni. Andiamoli dunque a vedere ed ascoltare, questi Rolling Stones che sembra siano tra i più bravi.
Ci siamo andati, così, senza polemica pregiudiziale, solo con quel tanto di disagio e di autoironia che le circostanze comportavano, trovandoci ad essere forse cento persone di mezza età fra tremila giovani e ragazzi entusiasti e scatenati. L'esperienza è stata positiva, e, attraverso questa nota, vorrei suggerire ai miei coetanei di non lasciar perdere analoghe occasioni. I Rolling Stones, in primo luogo, sono veramente bravi: le grida dei fans non riuscivano a coprire del tutto musiche e canzoni, molto belle, e Mick Jagger è cantante e mimo di vitalità e suggestione davvero notevoli: o, almeno, questo è il giudizio di un incompetente spassionato e curioso.
Ma lo shock dello spettacolo è stato, naturalmente, il pubblico. Soprattutto mentre si esibivano i modestissimi «complessi» italiani, che costituivano la prima parte del programma, quasi tutto il pubblico giovanile, cioè almeno duemila ragazzi e ragazze, senza prestare soverchia attenzione alle mediocrità che si susseguivano ai microfoni, ha ballato per una ora e mezzo sulle gradinate.
Non avevo mai visto queste danze, e mi sono parse più eleganti ed espressive di quanto non credessi.
[…] Mi perdonino i giovanissimi, ma solo allora ho capito che i canti, le danze, i vestiti, i capelli, gli ornamenti della loro ricerca, povera, ma accurata e, nel complesso, coerente, non sono solo un gioco polemico, una esibizione intenzionalmente provocatoria nei confronti di chi capellone non è: a un contatto superficiale, possiamo percepirli così, per il nostro abituale «gerontocentrismo», ma un contatto appena più durevole e aperto esclude una interpretazione così restrittiva. Una componente polemica esiste certamente, specie per i figli di famiglie agiate, ribelli ai conformismi oppressivi o alle violenze segrete dei loro genitori; ma per il più gran numero dei ragazzi che vedevo ballare, saltare e strillare attorno, lo stile sembrava essere davvero una cosa seria, una esperienza effettiva di libertà, non tanto un modo di opporsi a qualcuno, ma piuttosto un modo di costruire una immagine di sé di cui si soddisfacevano.
È evidente che, senza dischi, televisione, stampa specializzata, ornamenti specifici prodotti in serie, questo stile non si sarebbe costituito e diffuso. Ma se molti adulti accorti hanno contribuito a crearlo e diffonderlo (lucrando grossi guadagni), lo stile tuttavia esprime qualcosa di originale e sinceramente vissuto e partecipato. Che si tratti di una esperienza estetica e culturale limitata, e che difficilmente può legarsi in un rapporto positivo con altri aspetti del nostro modo reale di vivere, è certamente vero: per quanto tempo, infatti, si può rimanere beat. Potrebbe esistere e sopravvivere una società nella quale lo stile beat si estendesse e consolidasse oltre i limiti di gruppo, oltre le caratteristiche di una età di transizione, che, in concreto, ha più possibilità che responsabilità? Per quanta simpatia e comprensione si possa avere per i ragazzi capelloni, è difficile non dare una risposta negativa. I ragazzi beat non possono sviluppare ed estendere le loro esperienze oltre un certo limite; chi restasse beat a 30 o 40 anni, come è a 15 o 20, di fatto perderebbe più di quanto non trovi nello stile e all'interno dei suoi riti. In termini di libertà e di esperienza effettiva, vi è molto di più nel mondo, anche nel mondo tradizionale, di quanto i capelloni non sappiano e non credano. È però onesto riconoscere che noi adulti non facciamo gran che perché essi lo sappiano, in un modo serio, e, cioè, per esperienza diretta. Ma forse è fatale che l'espansione industriale ed urbana, e la nuova civiltà delle comunicazioni facilitate, con gli scompensi sociali e culturali che provoca, conosca processi evolutivi non coordinati, e, almeno in apparenza, contradditori.
Ecco, l'ipotesi evoluzionista, da applicarsi in un contesto sociale pluralista e ricco di conflitti – mi dicevo al Palazzo dello Sport – consente forse di intendere il fenomeno beat (di cui per la prima volta avevo una esperienza diretta anche se probabilmente distorta e superficiale), come un fatto positivo, per quanto limitato e parziale. Cultura e incultura, civiltà e barbarie, espressione di sé e ripiegamento decadente, vi si mescolano insieme, ma la tendenza complessiva può essere giudicata evolutiva, nel senso che questi giovani spingono per allargare i nostri schemi, o meglio, al di là delle loro stesse intenzioni, provano che gli schemi tradizionali vanno allargati.
Certo, con il tempo, lo sviluppo culturale ridurrà di per sé la virulenza e gli aspetti più ingenui e grossolani del fenomeno originario, ma, per riassorbirlo, dovremo cambiare davvero qualche cosa: occorrerà, almeno, rendere più abituale per i giovani l'esperienza di responsabilità effettive, che non siano il solo esercizio negli studi o nell'iniziazione professionale.
Il fenomeno beat per noi adulti sarà stato positivo se sarà servito a farci intendere quanto siamo ancora lontani dal mettere a frutto le conseguenze dello sviluppo contemporaneo, dall'accettare che esso è, o meglio, che esso sia, innanzitutto, uno sviluppo di libertà. Da questo punto di vista, si deve anche pensare alla funzione dirompente del fenomeno beat all'interno del mondo socialista, nel quale in qualche misura pure si annuncia, e allo stimolo critico, pacifico e sostanzialmente unificante, che potrebbe rappresentare per il mondo di domani.
[Questo articolo riproduce parte dell’intervento pubblicato sul n. 4/1967 della rivista. Lo dedichiamo all’autore, che domani riceverà l’Archiginnasio d’Oro, il maggior riconoscimento che il Comune di Bologna assegna a personalità del mondo della cultura e della scienza.]
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