Sei mesi fa, nel giorno del terremoto in Emilia, Facebook si popola di pagine a esso dedicate. Qual è la ragione per cui gli individui assumono il compito di produrre informazioni in rete e di raccontare le loro storie? Cosa cercano coloro che accedono alle pagine di Facebook in un tale contesto? Che tipo di risorse offrono le pagine ai partecipanti?
Questo caso, per quanto eccezionale, aiuta a comprendere quali risorse sia in grado di mediare la rete. Analizzando le “pagine sul terremoto”, vediamo che i messaggi scambiati possono essere raggruppati in tre categorie principali: informazioni, conversazioni e aiuti. E questi, contrariamente a quanto potremmo attenderci, sono largamente minoritari.
Un aspetto interessante è che la caratterizzazione – regionale o locale - della pagina cambia, in modo significativo, il tipo di messaggi ospitati. Mentre nella pagina regionale che si è scelto di analizzare, la maggior parte dei messaggi ha un contenuto informativo, quella locale ospita una spiccata prevalenza di conversazioni, che, con il passare dei giorni, cominciano a veicolare iniziative di raccolta fondi. Così, mentre nel primo periodo le numerose fotografie ritraggono i danni subiti dal territorio, nella seconda fase sono soprattutto riferite a eventi pubblici per la sua ricostruzione.
La richiesta di aiuti riveste però un ruolo marginale in entrambe le pagine. Anche i messaggi di protesta sono pressoché assenti: le pagine non nascono quindi con l’intento di raccogliere lamentele, ma piuttosto di dar vita a uno spazio in cui le persone possano interagire tra loro, al fine di scambiarsi informazioni e rassicurarsi. Di fronte alla dichiarata impossibilità degli esperti di fornire certezze, nelle pagine si cercano forme di riduzione dell’incertezza, attraverso un’informazione autoprodotta, che sfrutta le competenze personali, anche di tipo amatoriale, degli individui. La possibilità di ricevere notizie “in diretta” è decisiva: gli avvenimenti non restano in attesa che qualcuno li commenti (come con i mezzi di comunicazione tradizionali), ma possono essere resi noti in tempo reale dalla voce dei testimoni.
Attraverso queste relazioni, vengono scambiate risorse pratiche e psicologiche. Le une riguardano contatti e indicazioni per soddisfare necessità emergenziali. Le altre rispondono all’esigenza di ricevere rassicurazione, di mantenere le relazioni (all’interno dell’area e con l’esterno), di avere l’illusione del controllo (la descrizione di avvenimenti consente di formulare qualche tipo di previsione circa l’evoluzione degli eventi stessi).
In sintesi, le risorse scaturite dalle pagine create su Facebook a seguito del terremoto interessano, in particolare, la disponibilità di informazioni in tempo reale, il controllo delle stesse attraverso la validazione dei protagonisti, la condivisione come risorsa organizzativa e la capacità di aggregazione di individui su base territoriale.
Si può sostenere che le pagine dei social network contribuiscono a sviluppare capitale sociale, innescando forme di collaborazione operative per far fronte all’emergenza? Anche in un caso di emergenza, i legami deboli esprimono una capacità di protezione?
I social network sono senza dubbio luoghi di condivisione emotiva e, in questo senso, potrebbero fungere da “dispositivi di protezione” in condizioni di particolare incertezza. La comunità in rete si propone come filtro/validazione dell’informazione proveniente dalle fonti ufficiali: ciò che è filtrato dagli individui, attraverso la loro diretta esperienza, diventa più credibile e affidabile, a conferma del valore esemplare assunto dalla testimonianza nel linguaggio della rete.
Tra comunicazione, condivisione e collaborazione si stabilisce così una continuità. Le pagine consentono espressioni di solidarietà che attivano energie e azioni. Le iniziative di cooperazione trovano un cemento nelle relazioni dirette. Da forme “solidaristiche” di aiuto, si passa così a forme di aiuto in cui sono coinvolti come protagonisti anche gli stessi destinatari.
Quanto conta il peculiare contesto culturale? Non vi è dubbio che una cultura come quella dell’Emilia-Romagna, con un consolidato carattere cooperativo, concorre all’adozione dello strumento in chiave collaborativa. Soprattutto, la corrispondenza della rete con una comunità locale è un fattore discriminante alla capacità delle pagine di sedimentare capitale sociale. Possiamo ipotizzare che i flussi di comunicazione della rete funzionino solo se organizzati attorno a contesti antropologici che ne favoriscono il consolidamento nell’intreccio con la vita quotidiana, dove la rete fa da catalizzatore di relazioni che si trasferiscono nel contesto reale, si traducono sia in iniziative pratiche, sia in occasioni di incontro conviviale. Ciò giustifica la differenza sostanziale rispetto alle pagine di informazione ufficiale in rete: nel gruppo creato su base locale, infatti, l’uscita dalla fase emergenziale non fa cadere la possibilità di comunicazione, contrariamente alla pagina regionale che ha una dimensione meramente funzionale e vede scemare la presenza con l’allontanarsi dell’evento.
Si può concludere che i social network alimentano un circuito di fiducia e di cooperazione che si trasferisce nell’esperienza quotidiana, anche una volta esaurita la funzione emergenziale. Sarebbe interessante svolgere analoghe ricerche sul loro ruolo nel produrre risorse organizzative, in contesti meno connotati da emergenza e storicamente meno ricchi di capitale sociale rispetto all’Emilia-Romagna: a quali condizioni la densità di legami deboli che si intersecano nelle reti sociali si trasforma in risorse di collaborazione? Se la condivisione dei messaggi riesce a rafforzarli, è possibile utilizzare i social network per interventi in cui è necessario e importante mobilitare l’azione diretta degli individui?
Le domande restano aperte. L'analisi, tuttavia, propone riflessioni interessanti circa il dispositivo dei social network, la cui valenza travalica indubbiamente il caso eccezionale considerato.
Riproduzione riservata