Nei due anni appena trascorsi «l’argomento Snowden», e tutto ciò che gli ruota attorno, è stato visto da Hollywood con molti dubbi e timori.
Il primo dubbio, più rilevante, è evidente: un documentario del 2014 molto raffinato, Citizenfour, aveva già vinto l’Oscar come miglior documentario ed era stato girato proprio da quella Laura Poitras che era volata a Hong Kong a incontrare Snowden, fresco di fuga dal suo Paese, nelle stanze dell’hotel The Mira. Il documentario era riuscito perfettamente nell’impresa di descrivere la tensione degli accadimenti, la fuga rocambolesca, la procedura innovativa di rivelazione alla stampa mondiale del contenuto dei documenti trafugati alla Nsa e ad altre agenzie da parte dei giornalisti coinvolti e la solitudine (e paranoia) di Snowden, diventando inevitabilmente un punto di riferimento – e una pietra di paragone – per tutti. Anche per un grande regista come Oliver Stone che, certamente, non si sarebbe fatto intimidire, ma avrebbe dovuto trovare nuove vie interpretative per creare qualcosa di originale.
Oltre al documentario erano stati pubblicati almeno tre libri di gran pregio che avevano affrontato con molta attenzione gli aspetti legali e politici della vicenda. La produzione ha subito acquisito i diritti di due di questi, uno di un giornalista e uno di un avvocato, e ha iniziato a inquadrare meglio la vicenda.
Infine, non si poteva certo dire che Snowden fosse un personaggio amato da gran parte dell’opinione pubblica statunitense: accusato di tradimento e spionaggio, attaccato da tutti i vertici del sistema politico, compresi Obama e Hillary Clinton (nelle sue funzioni di segretario di Stato), minacciato di morte da alcuni politici che avevano domandato senza giri di parole la sua esecuzione e, ultimo ma non ultimo, finito sotto la «protezione» proprio di Putin.
Da un punto di vista strettamente cinematografico, Snowden appariva un personaggio deboluccio per un film: un po’ nerd, introverso, non aveva la forte caratterizzazione tipica di personaggi che hanno marcato i cambiamenti della storia. Inoltre era vivente, cosa non di poco conto e che creava problemi a quei registi che avrebbero voluto «cristallizzare» momenti topici dell’era contemporanea attraverso i suoi protagonisti. La sua situazione «transitoria», con il dubbio di dove sarebbe andato dopo il soggiorno russo, rendeva il quadro incerto, liquido e scivoloso (soprattutto se qualcosa di clamoroso fosse successo proprio durante l’uscita del film nelle sale).
Nonostante tutte queste controindicazioni, Oliver Stone ha cercato di dar vita a un film che si proponesse, innanzitutto, di essere originale rispetto a quanto già girato da altri e che gli consentisse di trattare le vicende di questo personaggio rendendolo interessante. Snowden, evidentemente, è lontano anni luce dai tipici personaggi di Stone, di solito forti, virili, istrionici, veri e propri «maschi alfa». Non sarebbe neppure stato facile convincere il pubblico «generalista» e poco informato sugli aspetti tecnici che anche con il Datagate, in fondo, si è davanti a una svolta storica proprio come lo sono state la guerra del Vietnam (e l’obiezione alla stessa), l’ascesa della violenza nella società americana, il mondo di Wall Street e altre vicende trattate in passato dal grande regista.
Il compito non era banale. Serviva una «chiave» per descrivere i fatti che fosse diversa da tutte quelle usate da altri in precedenza, così Stone ha deciso di spingere molto sull’introspezione psicologica, analizzando sia il patriottismo di Snowden e della sua tradizione familiare (un animo patriottico che improvvisamente si trasfigura in un’incredibile azione di spionaggio e di tradimento nei confronti del suo amato Paese) sia il suo complesso rapporto con la fidanzata e il ruolo della ragazza nel prepararlo e convincerlo ad agire in quel modo.
Il film si apre e si chiude così, con una grande domanda: cosa può spingere un ragazzo cresciuto tra genitori e nonni patriottici e militari, pronto a entrare nelle forze speciali per andare a combattere con convinzione in Iraq (dovrà però rinunciare a causa di un brutto infortunio in addestramento) e assunto dalle migliori società di intelligence, a cambiare improvvisamente idea e a voler svelare al mondo il più avanzato e segreto sistema di intercettazione delle comunicazioni esistente?
Il secondo messaggio che il regista vuole lanciare agli spettatori più attenti riguarda il lato segreto delle attività d’intelligence, di spionaggio e di intercettazione. Si pensi a un John Le Carré dell’era digitale, a una esposizione sul grande schermo, comprensibile a tutti, di strategie, tecniche, tecnologie e azioni che nessuno conosce né può sapere. Stone e il suo team hanno ricavato queste nozioni non solo attraverso dialoghi con Snowden stesso e analisi di documenti riservati, ma anche contattando fonti della Nsa ed ex membri dell’intelligence. E magistrale è stata la capacità del regista di rendere chiaro questo mondo oscuro e labirintico, quasi kafkiano, che vede circolare (e intercettare) i dati del mondo. Efficacissimi, in particolare, i passaggi nei quali Stone fa capire a chi guarda che è possibile intercettare e ascoltare tutti i dati che circolano. Tutti. Con una facilità estrema.
Il film è, in diversi passaggi, molto cauto: non di denuncia ma di descrizione, non una polemica «urlata» ma il pacato racconto di una storia inquietante, senza scene d’azione ma con un costante cambio di punti di vista e riflessioni a voce alta.
L’uscita del film nelle sale (negli Usa e in Russia subito dopo la pausa estiva, in Italia a fine novembre) è avvenuta in un momento storico importante: non solo la campagna presidenziale e l’elezione di Trump, ma anche la richiesta a Obama da parte di Amnesty International di concedere la grazia a Snowden, come sua ultima azione (e facoltà) prima di lasciare la presidenza. Si ricordi, particolare non trascurabile, che Amnesty International ha scelto di patrocinare il film in quanto era uno dei tanti soggetti intercettati e sorvegliati proprio da quel sistema della Nsa denunciato nel film.
La realtà storica di queste ultime settimane sembra aver dimostrato, invece, che non stiamo vivendo in «tempi per Snowden» e che, nonostante la denuncia documentata, le attività di raccolta indiscriminata di dati non solo proseguono, ma sono anche in aumento.
Una volta usciti dalla sala di proiezione, il compito più affascinante rimane quello di comprendere se Snowden sia riuscito con le sue azioni, a livello mondiale, a sollevare un dibattito serio e nuovo sull’importanza della privacy e sulla pericolosità dei sistemi segreti di sorveglianza governativa. E se sarà in grado di motivare ulteriormente attivisti, studiosi e hacker nella ricerca di nuove forme di difesa da una società del controllo indiscriminato sempre più potente.
Stone, a onor del vero, non ha voluto connotarlo come un «nuovo eroe dei diritti civili» (tema che, comunque, è sempre stato caro al regista): ha preferito analizzare il suo lato più intimo e gli aspetti più particolari del suo carattere. Di certo, però, è riuscito nell’intento di descrivere egregiamente l’oscurità, il fumo, l’alea, la discrezionalità, la burocrazia, la pericolosità, gli effetti discriminatori e la potenza di un sistema di controllo che quei diritti è perfettamente in grado di violare. In segreto e ogni giorno.
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