Quale futuro per la Macedonia? Domenica scorsa i cittadini della Repubblica di Macedonia sono stati chiamati alle urne per un referendum consultivo che chiedeva loro: «Siete favorevoli a divenire membri dell’Unione europea e della Nato accettando l’accordo tra la Repubblica di Macedonia e la Repubblica di Grecia?». Sebbene il 92% dei votanti si sia espresso favorevolmente, l’affluenza alle urne a malapena del 36% non ha permesso di raggiungere il quorum necessario, decretando il fallimento della consultazione.
Il referendum rappresentava l’unica opportunità per la Macedonia di risolvere il suo contenzioso con la Grecia e, di conseguenza, aprire le porte verso l’adesione all’Unione europea e alla Nato. Lo scorso giugno, infatti, il primo ministro macedone Zoran Zaev e quello greco Alexis Tsipras avevano firmato l’Accordo di Prespa, che prevedeva il cambiamento del nome della Repubblica ex jugoslava in Repubblica della Macedonia del Nord. In seguito all’Accordo, la Macedonia aveva finalmente ottenuto il via libera da parte del Consiglio europeo a portare avanti i negoziati per l’adesione all’Unione europea – che dovrebbero essere avviati nel giugno 2019. Anche la Nato aveva invitato ufficialmente la Macedonia ad aderire all’Alleanza atlantica, tuttavia condizionando l’adesione alla risoluzione della diatriba con la Grecia. Questi erano, infatti, i punti fondamentali sui quali puntava la campagna elettorale referendaria del «sì» del primo ministro macedone. Il referendum rappresentava l’unica opportunità per la Macedonia di risolvere il suo contenzioso con la Grecia e, di conseguenza, aprire le porte verso l’adesione all’Unione europea e alla NatoIl contenzioso con la Grecia, conosciuto come «la disputa del nome», ha avuto inizio nel 1991 con la dichiarazione di indipendenza della Macedonia in concomitanza con il crollo della Jugoslavia. La piccola Repubblica adottò il nome di Repubblica di Macedonia, provocando così il disaccordo della Grecia, la quale propose l’adozione di un nome diverso. La disputa gravitava attorno all’uso del termine «Macedonia», non solo vista l’omonimia del nuovo Stato con una delle regioni settentrionali della Grecia, ma anche, e soprattutto, data l’eredità storica della Macedonia di Alessandro il Grande. Inoltre, sospettando un certo irredentismo nei confronti della regione greca di Salonicco, la Grecia si oppose anche ad alcuni articoli della Costituzione macedone, così come all’uso del «Sole di Verghina» come emblema principale della nuova bandiera macedone. Skopje, dal canto suo, non intendeva fare passi indietro, né sul nome, né tantomeno sulla sua identità nazionale. La disputa divenne sempre più accesa, infiammando i nazionalismi di entrambe le parti, e portando alla necessità di mediazione delle Nazioni Unite, le quali, nel 1993, proposero l’uso dell’acronimo Fyrom (Former Yugoslav Republic of Macedonia – Ex Repubblica jugoslava di Macedonia). Nel 2008 la Grecia si oppose, usando il suo diritto di veto, all’accesso della Repubblica di Macedonia nell’Unione europea e nella Nato, subordinandolo al raggiungimento di un accordo sul nome dello Stato.
Nonostante il fallimento del referendum, il primo ministro Zaev, leader dell’Unione socialdemocratica di Macedonia e della campagna per il «sì», si è tuttavia dimostrato moderatamente soddisfatto, sostenendo che già il fatto che la maggioranza dei votanti si fosse espressa favorevolmente fosse un segnale chiaro e positivo. Anche l’Unione europea e la Nato si sono complimentate per «la sostanziale vittoria dei sì» e l’ampio supporto volto a «non perdere un’occasione storica» – così ha dichiarato il segretario generale Jens Stoltenberg. Anche il ministro greco degli Affari esteri, in una conferenza stampa, ha ribadito la volontà del suo Paese a concretizzare l’Accordo di Prespa, facendo appello a «una cultura democratica del dialogo» anziché a «un clima di nazionalismo e sospetto».
Dal canto suo, Zaev intende continuare le trattative per l’adozione dell’accordo con la Grecia portando la questione in Parlamento – dove, però, avrà bisogno dell’appoggio dell’opposizione. È necessaria, infatti, una maggioranza dei due terzi per apportare le modifiche costituzionali volte a cambiare il nome della Repubblica. L’opposizione, che ha ampiamente promosso il boicottaggio del referendum, difficilmente supporterà Zaev nella sua battaglia. Il partito di opposizione Vmro-Dpmne (Organizzazione rivoluzionaria interna macedone – Partito democratico per l'unità nazionale macedone), infatti, nonostante sia favorevole all’ingresso nella Ue e nella Nato, nel corso dell’ultimo decennio, quando era al governo, ha avuto più volte occasione di mostrare la sua intransigenza verso «la questione del nome» – considerata incostituzionale. «La gente che ha votato contro l’accordo e quelli che astenendosi hanno scelto di mostrare che cosa ne pensano hanno espresso il messaggio più forte – [e cioè che] questa è Macedonia!», ha dichiarato Hristijan Mickoski, leader del partito. Il partito di opposizione nonostante sia favorevole all’ingresso nella Ue e nella Nato ha avuto più volte occasione di mostrare la sua intransigenza verso "la questione del nome" considerata incostituzionaleLa questione passa quindi al Parlamento: consapevole delle difficoltà cui va incontro, Zaev ha già dichiarato che in caso di mancato supporto da parte dell’opposizione il Paese andrà a elezioni anticipate, probabilmente già alla fine di novembre. In caso di mancata approvazione dell’Accordo di Prespa, la Grecia continuerà a mantenere il veto all’integrazione europea e all’adesione all’Alleanza atlantica. La Macedonia, dunque, a più di due anni dalla crisi politica e dalla «Rivoluzione Colorata» che portò al rovesciamento del governo nazionalista di Vmro-Dpmne e del suo leader Nikola Gruevski, sembra ancora politicamente polarizzata e indecisa sul suo futuro.
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