Le elezioni andaluse del 2 dicembre. C’era grande attesa per l’esito delle elezioni che ieri si sono svolte in Andalusia per il rinnovo del Parlamento regionale. Molti i motivi d’interesse sul piano locale, nazionale e anche europeo. L’Andalusia è la Comunità autonoma più estesa e popolosa della Spagna. Vi governano ininterrottamente i socialisti dal 1982. Alla presidenza della Junta (cioè del governo autonomo della regione) era candidata la presidente uscente, in carica dal settembre 2013, Susana Díaz, avversaria del presidente del governo Pedro Sánchez, già fautrice dell’astensione dei deputati socialisti che consentì a Mariano Rajoy di insediarsi nuovamente alla guida del governo dopo i vari mesi di stallo seguiti alle elezioni nel 20 dicembre 2015. Sánchez s’era allora negato a consentirlo e con un irrituale colpo di mano dei vertici del partito (Direzione e Comitato federale) era stato sfiduciato. Dimessosi anche da deputato, ma forte del sostegno della base, si era ricandidato alle primarie del 21 maggio 2017 sconfiggendo proprio Susana Díaz, che era stata tra i promotori della sua defenestrazione. Tornato alla guida del partito, all’indomani della sentenza dell’Audiencia Nacional che aveva condannato per corruzione, tra gli altri, l’ex senatore e tesoriere del Pp, Luis Bárcenas, Sánchez aveva presentato una mozione di censura contro Rajoy e, ottenuto il voto favorevole della maggioranza dei deputati il 1 giugno 2018, si era insediato alla presidenza di un governo di minoranza.
Oltre che per verificare la tenuta socialista in Andalusia, il voto di ieri era atteso dunque per sondare il consenso al governo di minoranza di Sánchez e gli orientamenti dell’elettorato, sia in vista delle elezioni amministrative, autonomistiche ed europee del maggio 2019, sia di quelle legislative che Sánchez potrebbe convocare per l’autunno del 2019 o per i primi mesi del 2020. Questo, per lo meno, è quanto riferito da voci accreditate degli ambienti vicini al leader socialista. Ma le elezioni andaluse costituivano anche una verifica del consenso di cui gode il nuovo leader del Pp, Pablo Casado, che ha decisamente spostato a destra l’asse del partito. Un ulteriore motivo d’interesse, nazionale ed europeo, era rappresentato da Vox, già presentatosi senza esito in precedenti competizioni elettorali, ma questa volta accreditato dai sondaggi di ottenere un qualche risultato e almeno un seggio. Nato nel 2013 per iniziativa di dirigenti usciti dalla destra dal Pp, Vox rappresenta la versione spagnola di quella destra populista e nazionalista, che ha iniziato a imperversare in Europa suscitando non pochi timori per la tenuta della democrazia e che era finora mancata nel Paese iberico. Un partito volto a cavalcare la reazione del nazionalismo spagnolo di fronte all’indipendentismo catalano, un partito che non a caso vorrebbe modificare il decentramento politico-amministativo per riconsegnare al governo centrale le competenze trasferite nel corso degli anni alle Comunità autonome e che si propone di cancellare la legge sulla violenza di genere. Una partito, infine, candidato a raccogliere i voti dell’estrema destra neo e post franchista, a erodere consensi sul fianco destro del Pp e di Ciudadanos.
Le sorprese non sono state poche. Confermando i sondaggi, il Psoe è rimasto con il 27,9% dei voti il primo partito nell’Andalusia, ma con un tracollo di voti tale (-7,5% sui risultati del 2015) da fargli perdere 14 seggi. Se si pensa che nelle elezioni del 2012 aveva ottenuto il 39,5% dei consensi, con 47 seggi, confermati in quelle anticipate del 2015, che pure l’avevano visto perdere il 4,1% dei voti, la disfatta dei socialisti assume tutta la sua evidenza. Il Pp si è confermato secondo partito con il 20,8% e 26 seggi, pur perdendo 5,9 punti percentuali e 7 seggi rispetto alle elezioni precedenti. Ha invece duplicato i propri consensi Ciudadanos passato dal 9,2% dei voti nel 2015 con 9 deputati all’attuale 18,3% con 21 seggi. Non bene è andata la coalizione tra Podemos e Izquierda Unida-Verdes, Adelante Andalucía, che ha conquistato il 16,2% dei voti e 17 deputati, meno cioè della somma di quanto separatamente avevano ottenuto nel 2015. Pochi sondaggi avevano attribuito a Vox il successo che ha indubbiamente ottenuto con l’11% dei voti e la conquista di 12 seggi. Un risultato preoccupante sul piano interno perché porta nelle istituzioni quella destra radicale che ne era rimasta finora esclusa dal ritorno della democrazia in Spagna. E preoccupante sul piano europeo per la sponda che potrà offrire nelle elezioni del maggio 2019 a quei movimenti che fanno del sovranismo antieuropeista e della lotta contro gli immigrati la propria ragion d’essere. Non a caso Marine Le Pen è stata la prima a congratularsi con il leader di Vox, Santiago Abascal.
E ora? Di sicuro l’Andalusia volterà pagina, non avendo i socialisti, neppure con Adelante Andalucía, i 55 voti necessari per governare. Una maggioranza che neppure il Pp assieme a Ciudadanos raggiungono. A meno che non si rivolgano a Vox, la qual cosa renderebbe permeabili i confini tra destra democratica e destra radicale. Estremamente complicate appaiono anche altre combinazioni che, pur spurie sul piano ideologico e programmatico, consentirebbero di prescindere da Vox e di non sottostare ai suoi possibili ricatti. Ma si tratta di soluzioni che non albergano né nella tradizione, né nelle le culture politiche dei quattro partiti. Socialisti e popolari avrebbero i numeri per dar vita a una coalizione che però sarebbe percepita come arroccamento del vecchio bipartitismo contro le forze politiche (Ciudadanos e Podemos) emerse negli ultimi anni. Insomma: la crisi di socialisti e popolari permane, il compito di dare un governo all’Andalusia è tutt’altro che facile, il governo di Sánchez più debole e più travagliato l’approdo a un nuovo assetto dopo la fine di quel bipartitismo imperfetto che aveva finora contraddistinto le dinamiche del sistema politico spagnolo. A Madrid come altrove.
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