Si sa che la funzione di Pietro nella Chiesa cattolica è quella di confermare i suoi fratelli e le sue sorelle nella fede. Un velo evangelico per nominare il potere. Ma la sua efficacia risiede nell’essere effettivamente riconosciuto dalla comunità ecclesiale, in particolare dai vescovi, in quanto potere legittimamente operoso. Il Sinodo per la regione pan-amazzonica è stato sostanzialmente questo: ha confermato Francesco. E lo ha fatto su uno dei tratti più esposti e innovativi del suo magistero: quello disegnato dall’enciclica Laudato Si’.
Riducendo un testo complesso ai minimi termini, esso rappresenta la dimensione sociale di un principio teologico cardine della fede cristiana: quello della tunica senza cuciture che lega, originariamente e inscindibilmente, tra loro amore per Dio e amore per il prossimo. Secondo Francesco, le forme di relazione all’eco-sistema e all’ambiente declinano, nel momento attuale, proprio questo principio sacro del cristianesimo.
Il Sinodo è stato, dunque, un processo di riconoscimento e appropriazione comunitaria da parte della Chiesa della Laudato si’ e del suo autore. Un altro indice del modo in cui Francesco intende il potere che compete a Pietro: mai senza i suoi, mai senza l’altro. Mostrando che la «solitudine» di Francesco non è propriamente tale, che c’è una fetta rilevante di Chiesa, autorevolmente rappresentativa, cordialmente disposta ad affiancarlo nei tratti più impervi del suo ministero. Quelli in cui la Chiesa cattolica si propone come soggetto globale di una critica all’egemonia imperante del modello tecno-finanziario quale principio giustificativo di ogni relazione all’umano e alla creazione.
E lo ha fatto intorno a un tema sostanzialmente inedito: quello che metteva a fuoco il destino di una «regione» che non coincide né con la forma politica della nazione, né con quella ecclesiastica della diocesi o della conferenza episcopale. Aprendo così la Chiesa tutta verso un modo trasversale di guardare non solo alle cose, ma allo stesso Vangelo di Gesù. Sotto Francesco il cattolicesimo sta apprendendo i rudimenti di dover lavorare in obliquo, anche quando si tratta di questioni pastorali e di assetto della comunità cristiana.
Questo esito non era affatto scontato, ma a mio avviso è il portato più rilevante che possiamo registrare a Sinodo concluso. Sinodo che ha avuto la sua originalità anche sotto altri punti di vista. In primo luogo, quello della possibilità di un parlare franco su temi che possono essere divisivi. L’originalità consiste nell’aver ricondotto la tensione delle diverse posizioni all’interno di uno spazio propriamente ecclesiale, anziché abbandonarla definitivamente alla violenza indotta e tollerata dalla comunicazione digitale.
Accettando non solo di misurarsi intorno a tali questioni (due fra tutte: l’ordinazione di uomini sposati al sacerdozio e il conferimento di una potestas ecclesiale al ministero di fatto già esercitato dalle donne nelle comunità cristiane dell’Amazzonia). Ma anche di renderne ufficialmente noto l’esito: la pubblicazione delle votazioni sui singoli punti del documento finale del Sinodo, consegnato al papa come base per la sua post-sinodale, è stato esplicitamente voluto da Francesco, senza registrare opposizioni significative in merito all’interno dell’assemblea.
Con questo Sinodo si apre la possibilità, per la Chiesa cattolica, di iniziare a lavorare su casi «particolari» che contengono in sé una portata esemplare. Un modo nuovo di intendere l’articolazione fra universalità e particolarità, che attraversa da sempre il corpo ecclesiale. Aprendo alla possibilità di percorsi inediti legittimi per una parte di Chiesa che possono essere, al tempo stesso, ispirativi per altre.
In questo modo Francesco, ben supportato dall’assemblea sinodale, è riuscito a rendere chiaro il fatto che l’universalità della Chiesa cattolica è tutt’altra cosa che uniformità e medesimezza. Su questo l’Occidente cattolico sembra ancora faticare non poco, palesando una sorta di residuo colonialista della sua forma mentis. Sia per quanto riguarda l’imposizione di un modello sostanzialmente ancora eurocentrico all’intero del cattolicesimo globale; sia per ciò che concerne un uso strumentale, a proprio uso e consumo, di alcuni esiti del Sinodo. Tra tutte, basti menzionare le due questioni di cui si è già fatto cenno: ordinazione di uomini sposati e diaconato alle donne.
Se mettessimo da parte questi residui di occupazione coloniale dell’esperienza di fede di cattolicesimi altri, allora sì concederemmo loro di poter funzionare in maniera esemplare a favore della Chiesa tutta. La cosa diventa immediatamente evidente rispetto al ruolo delle donne nella Chiesa cattolica, perché nella regione pan-amazzonica esse esercitano di fatto già un ministero di guida delle comunità cristiane – che non sarebbero pensabili come tali senza di esse.
L’esperienza «particolare» ci mette di fronte al fatto di un esercizio della fede praticato in modi che sono stati completamente assorbiti da quello che chiamiamo abitualmente ministero ordinato. Ma ci dice anche di un allargamento in atto di questo modello, di cui esso da sé sembra non essere capace. La domanda, che interessa tutti, è quindi come onorare debitamente queste pratiche della fede che si assumono la responsabilità di una comunità cristiana.
A mio avviso, non si tratta di creare una nicchia ministeriale femminile all’interno di una Chiesa che continua sostanzialmente a declinarsi al maschile. Quanto, piuttosto, di mettere mano a un’universalità effettivamente tale: che guarda alla fede della persona, alle sue forme di esercizio e alla vocazione che esse mettono in atto, a prescindere dal genere. Insomma, non si tratta di «quote rosa» anche nella Chiesa, ma di prendere sul serio e riconoscere la portata ministeriale dei vissuti credenti – quando essi, di fatto, si esercitano in tal modo.
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