Ormai si discute della possibile uscita della Grecia dall’euro, e forse dall’Europa, come di una normale possibilità. Nulla di normale, invece. Sarebbe un evento gravissimo, che porterebbe con sé rischi immensi. Non solo per i greci, condannati con tutta probabilità a un drastico impoverimento e a una forte incertezza politica e sociale. Ma anche per l’Italia e per tutta l’Europa. Per almeno tre motivi.
Il primo, e più importante, di natura politica. Negli ultimi decenni la costruzione europea ha incluso Paesi molto diversi; ha accompagnato la loro trasformazione – a partire dalle dittature mediterranee e dal comunismo dell’Est – in democrazie;
ha creato un corpus di norme e relazioni, per quanto ancora incompleto, unico al mondo; un’unione basata, oltre che sulla responsabilità comune, sulla solidarietà fra popoli. Ha permesso il più lungo periodo senza guerre della storia continentale. Nessuno oggi può immaginare cosa può accadere se questa costruzione comincia a sfaldarsi, se comincia a perdere membri invece di “allargare” e “approfondire” ancora l’Unione. Ma il ventaglio delle ipotesi si apre drammaticamente. Pericolosamente.
Il secondo di natura geostrategica. La Grecia fuori dall’Europa ridisegnerebbe, secondo linee difficili da immaginare, gli scenari mediterranei. Proprio quando dal Nord Africa arrivano, seppur contraddittorie, positive novità. Il rischio è quello di disegnare nuovi profondi confini: a casa nostra, nello Jonio. Il rischio è quello di riportare nell’incertezza tutti i Balcani, al di là del nostro mare Adriatico. E’ sorprendente come, da noi, si percepisca poco che una Grecia scheggia impazzita nel Mediterraneo rappresenterebbe un pericolo gravissimo proprio per l’Italia, per il suo ruolo nel Mediterraneo (tanto evocato quanto sinora poco praticato).
Il terzo di natura economica. Sono evidenti gli aspetti di “psicologia dei mercati” che caratterizzano questa crisi. E’ stata la percezione di una possibile insolvenza greca a determinare l’impennata dei tassi di interesse di Paesi ben più solidi, come la stessa Italia (impennata che a sua volta rafforza le difficoltà, come una profezia che si autorealizza). E’ evidente che un’uscita della Grecia dall’euro, con una nuova dracma svalutata, aggiungerebbe anche una percezione di rischio di cambio ai debiti di altri Paesi europei: tassi in crescita sia per le difficoltà dei bilanci pubblici sia per la possibilità che si ricreino monete nazionali. Se l’ha fatto la Grecia, può succedere ad altri. E se dilaga la paura, tutto può accadere.
Di fronte a questi rischi si staglia la cancelliera Merkel. La leadership più meschina ed egoista che la Germania abbia avuto nel dopoguerra, capace solo di predicare un rigore teologico mentre il suo Paese si arricchisce sfruttando le difficoltà degli altri, rafforzandosi sui loro mercati, finanziandosi a tasso zero. Una visione bottegaia, incapace di percepire gli avvertimenti che vengono dai grandi vecchi tedeschi, come Kohl e Schmidt, o da più responsabili protagonisti contemporanei, come Joschka Fischer, per il futuro della stessa Germania. Una leadership che sta portando il suo Paese e l’intero continente verso rischi tanto enormi quanto inimmaginabili fino a poco tempo fa. Come negli anni Trenta.
Così, l’Europa assiste passiva all’evolversi degli scenari greci, incapace di superare l’irresponsabilità della Merkel, e di offrire a quel Paese, ai suoi elettori, scenari più ragionevoli e sopportabili di risanamento. Incapace di invitare davvero i greci a votare per l’Europa. Incapace di comprendere che “i greci siamo noi”.
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