In questi mesi di pandemia molti consumi culturali sono cambiati: niente cinema, niente teatri, niente concerti. E dunque qualche libro in più, molti zoom e, per tanti, molte serie tv.
Fra quelle di maggiore successo, una serie «sorprendente»: Shtisel – sorprendente per tema (la vita quotidiana di una piccola comunità ultraortodossa di Geula, a Gerusalemme), per sviluppo (molte le aspettative narrative frustrate: ciascuno «non fa» quello che secondo noi dovrebbe fare e sarebbe normale fare), per lingua (senza doppiaggio, solo in yiddish ed ebraico), per ritmo (succede pochissimo, e molte puntate contravvengono alle aspettative di azione o turning point di qualsiasi buona sceneggiatura), per colori e povertà (nessun paesaggio mozzafiato, nessun interno di design, nessun cedimento vintage: tutto semplicemente grigio e beige, e tanta fòrmica). Sorprendente per successo: 3 stagioni, tutte in crescendo.
Molti gli elementi, però, che avrebbero dovuto rendere questa serie invisa, tanto più in questi mesi (di reclusione forzata, di diritti sacrificati, di MeToo ormai fuori discussione, di politicamente corretto sempre più spesso invocato). Anzitutto un mondo di coercizione: molte regole, la libertà individuale costantemente ridefinita dai dettami religiosi, la capacità di scelta del singolo continuamente subordinata alla decisione della Legge. Poi un mondo di diritti fortemente ridimensionati, con fortissimi disequilibri anche di genere: le donne che mortificano il proprio corpo nascondendolo; la maternità surrogata che fa scandalo; la malattia mentale che non può neanche essere nominata.
A ciò si aggiungono una rete mediatica guardata come fonte di corruzione (niente internet, cellulari solo di prima generazione, la televisione che porta un mondo pieno di insidie nello spazio sacro della casa), un futuro guardato con sospetto, a vantaggio di un passato che non deve essere messo in discussione ma solo e sempre ripetuto e un orizzonte geografico sempre contratto e mai ampliato, che condanna la possibilità di una vita a New York (offerta al giovane protagonista) per affermare con forza il vantaggio dello spazio controllato del proprio quartiere.
Insomma: il mondo di Shitsel è un mondo non solo diverso dal nostro ma «contro» il nostro: vicino ma in opposizione.
Il mondo che Shitsel mette di fronte è un mondo non solo diverso dal nostro ma "contro" il nostro: molto più vicino di quanto non si potrebbe credere ma in opposizione
Eppure, non siamo stati urtati da tutto ciò. Le storie raccontate non hanno scandalizzato la nostra sensibilità, nonostante non ci sia nulla nella serie che metta in discussione la validità di quei valori (non come in Unorthodox, ad esempio, dove il punto di vista valoriale è chiaramente quello dell’Occidente progressista e la storia è una storia di emancipazione, a lieto fine, con tutti i crismi dell’esasperazione drammatica a tinte forti; qualcuno direbbe – secondo me sbagliando – a tinte Netflix).
Al contrario, quel mondo ci è parso accettabile, interessante, coinvolgente. A guardarne il successo, dobbiamo banalmente dire che Shtisel ci è piaciuto. Questo, dunque, è il grande mistero della serie, e certamente il suo grande merito: un merito che vorrei dire antropologico.
La qualità antropologica non sta nella mera rappresentazione del diverso; tale aspetto potrebbe condurre all’esotismo, o anche a rispettabili ma classici meccanismi di curiosità. La qualità antropologica del film sta nel portare lo spettatore a vedere quella cultura secondo le sue proprie categorie, e non secondo le nostre. «Comprendere la cultura di un popolo ne mette in luce la normalità senza ridurne le peculiarità. Le rende accessibili: ponendole nella cornice delle loro banalità, ne dissolve l’opacità», scrive Clifford Geertz in Interpretazioni di culture.
Quello che effettivamente Shtisel fa saltare (in modo soft: vero caso, da tutti i punti di vista vorrei dire, di soft power) sono proprio le categorie della nostra visione e delle nostre assiologizzazione di occidentali progressisti: obbedienza e ribellione, rinuncia e desiderio, passato e futuro, non sono valorizzati come poli negativi e positivi della libertà di scelta.
La realizzazione di sé sembra darsi in un’altra dimensione, che è al di là di queste opposizioni : Akiva – il giovane artista represso nel suo talento dalla sua cultura religiosa, dal padre, da tutta la famiglia – trova alla fine il modo per fare il pittore restando dentro la sua religione, perché la sua libertà sembra giocarsi su un piano tutto interiore, in cui fede e arte non vivono in conflitto; il pater familias Shulem, portavoce della tradizione ultraortodossa e rabbino della comunità haredim, viene a patti con una serie di debolezze affettive (sono diversi gli innamoramenti che alla fine ammette), pur non sposandosi mai in secondo nozze; Giti, la figlia più rigida di Shulem, apparentemente disposta a sacrificare tutto per la religione e per il buon nome della famiglia, in realtà fa uno strappo per la figlia e ne accetta la (presunta) maternità surrogata…
Saltano le categorie della nostra visione e delle nostre assiologizzazioni di occidentali progressisti: obbedienza e ribellione, rinuncia e desiderio, passato e futuro, non sono valorizzati come poli negativi e positivi della libertà di scelta
Tutti, insomma, sono in qualche modo compromessi con la realtà, senza perdere per questo la forza della propria idealità, né la convinzione delle proprie credenze o la sottomissione della propria obbedienza: tutti fedeli e insieme imprecisi, tutti obbedienti e autentici, tutti uguali e diversi. Nessuno mette in discussione il sistema, ma ciascuno ci si assesta a modo proprio, secondo una modalità che non oppone verità e menzogna, ma piuttosto dire e non dire: molte sono le omissioni, poche le menzogne vere e proprie, poche le verità esplicitate, molte le verità lasciate implicite, ai silenzi, alle intuizioni, ai gesti accennati. È nello spazio dell’«omissione» che si consumano le infedeltà (alla religione e a se stessi): Shulem non confessa i suoi affetti, dalla segretaria all’ultima amica; Akiva non parla mai né del dolore dei suoi lutti né dei suoi desideri, di espressione e successo; Giti non ammette l’umiliazione narcisistica di sentirsi tradita dal marito né sappiamo e sapremo mai se davvero il marito l’ha tradita; Ruchami non confessa la sua gravidanza, e così via… In questo spazio di non detto, però, non si assesta una forma di doppiezza, o di falsità, quanto piuttosto una forma di «esitazione» che ha molto, credo, della religione ebraica: misto di timore di Dio (e gli haredim sono propriamente i timorati di Dio, coloro che tramano di fronte a Dio), di indecisione interpretativa, di esitazione nel dover trovare la regola (religiosa) che giustifichi il proprio caso (esistenziale).
E così, certo in forza di una serie di elementi narrativi universali (i conflitti genitori-figli, le sofferenze degli amori non corrisposti, il dolore dei lutti progressivi) e di una fedeltà assoluta in termini di ambientazioni e costumi (che in questi mesi di pandemia ci ha letteralmente spostato in un mondo altro), ma soprattutto in ragione di una capacità straordinaria di restituirci ai nostri compromessi, alle nostre esitazioni, alle nostre indecisioni, Shtisel ci ha portato in un mondo tanto lontano dal nostro per regole e alfabeto, quanto vicino, sorprendentemente, agli inciampi della nostra vita, quella vita di tutti giorni (a ciascuno la sua) in cui andiamo a sbattere.
Senza troppo insistervi (ma con alcuni momenti di esplicitazione meta-narrativa e meta-mediatica), Shtisel ci ha messi tutto sullo stesso piano: occidentali laici progressisti e femministi in isolamento pandemico, ultra-ortodossi stretti fra poche pareti di casa bottega e yeshivah, infelici protagonisti impenitenti di Dallas (per i quali la nonnetta della prima stagione prega, perché comunque «anche per loro la famiglia è tutto»), comparse di una serie sugli ultraortodossi di Gerusalemme. Tutti incompiuti, banali, esitanti, umanissimi. Tutti, in fondo, con i nostri trucchi e parrucchi (molte le parrucche in Shtisel, molti i trucchi per noi), per adattarci alle regole della vita.
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