La storia della Shoah è diventata in buona misura monumento. Nel rarefarsi del ricordo dei sopravvissuti, giunti – se ancora in vita – all’ultima stazione, concediamo alla reminiscenza il pezzo d’arte memoriale, che in sé contiene documento ed emozione. Berlino, come capitale tedesca, ma soprattutto come capitale del Terzo Reich nazista, è ormai disseminata nel suo tessuto di decine di monumenti in memoria delle vittime dei lager.
Così come i nazisti tenevano i loro prigionieri tra i recinti in balia di sé stessi, nella distinzione gerarchica ottenuta coi “triangoli colorati”, oggi quelle minoranze sono ricordate in ben precipui memoriali, ognuno dei quali ci racconta del destino di ciascun colore. Che esperienza ci restituiscono questi luoghi? Possono veramente aiutarci nella profonda comprensione dell’abissale sofferenza di quelle vittime? Quando la memoria passa attraverso il monumento, ci troviamo davanti a un postulato: ed è tutta una questione di metodo.
Per quel che concerne i memoriali berlinesi più importanti, ossia il Memoriale agli ebrei uccisi d’Europa (in tedesco Denkmal für die ermordeten Juden Europas, conosciuto anche come Memoriale dell'Olocausto), il Memoriale agli omosessuali e alle lesbiche perseguitati, il Memoriale alle vittime disabili dell’eutanasia (Aktion T4) e il Memoriale ai sinti e rom, il metodo scelto dai differenti artisti è quello “empatico” (capacità dunque di porsi in modo immediato nello stato d’animo altrui). Una scelta di primo acchito ininfluente, ma che invece nella somma di tutti i memoriali oggi presenti diventa quasi ridondante. Perché tradisce l’illuminazione a monte, proposta dal primo creatore rivoluzionario di un monumento a Berlino, Peter Eisenman, architetto ebreo newyorkese artefice del grande monumento in memoria del genocidio di sei milioni di ebrei.
Su 19 mila metri quadrati di terreno disponibile, reso ondulato, tra la Porta di Brandeburgo e Potsdamer Platz, Eisenman ha disseminato 2.711 stele (tante quante sono le pagine del Talmud), di medesima forma ma non altezza, che si slanciano nello spazio seguendo differenti angolazioni e creando così percorsi asfittici, compressi ma al tempo stesso agevoli. Un progetto astratto, in apparenza ermetico, se visto in foto o dall’esterno; ma basta camminare tra le stele per capire dove Eisenman ci vuole condurre: in balia dei nostri stessi sensi e sentimenti, nella soggettività di una dimensione che prima di ogni cosa parli al sé e poi ci dica delle vittime.
La rarefazione figurativa di Peter Eisenman a favore dell’astrazione non è finalizzata a uno scopo tecnico, per così dire, di gestione di un linguaggio tra i tanti usati dalle arti visive. Il fine è fornire ai visitatori in cerca delle vittime un’Afklärung in der Erfahrung (“illuminazione nell’esperienza”) che aiuti a comprendere meglio il luogo, dando attraverso il dato empatico uno strumento di gestione autonoma dell’esperienza memoriale, perché diventi esercizio.
Un memoriale nel tessuto urbano è per tutti, quindi non deve essere velleitario nella pretesa di pregresse competenze in arte da parte di un’umanità commemorante: per questo deve dare per scontata la ricezione, deve semplificarsi in senso logico e cognitivo e a viso aperto. In questo caso con Eisenman lo fa l’astrazione, più di quel che crederemmo.
La tradizione ci ha definito. E nel suo solco i nostri sensi restano purtroppo in balìa di una ripetitività foriera di retorica
Vicina non solo perché quella del memoriale crea reazioni percettive, sollecitando l’universo emozionale, ma perché viviamo perennemente immersi in una condizione astratta. La tradizione ci ha definito, per questo Peter Eisenman l’ha voluta negligere, perché nel suo solco i nostri sensi restano purtroppo in balìa di una ripetitività foriera di retorica. E la retorica sa essere un potente e pericoloso sonnifero per la memoria.
Le tipiche statue pietiste, che ci hanno accompagnato fin qui, di figure contorte nel dolore, attraverso un linguaggio diretto pensano di spingerci all’empatia, mentre invece, nell’imboccarci a forza, ci portano all’indigestione. Questo tipo di tradizione non ci lascia liberi nel divulgare subito quel che reclama attraverso l’iconografia del dolore: silenzio e rispetto se imposti azzerano divagazioni o processi interpretativi per la fruizione infallibile. Così la politica molto spesso ha definito i suoi memoriali, perché il messaggio fosse diretto, senza alcun escluso, ma a costo della libertà d’esperienza. Nell’imporre il messaggio, il pietismo sintetico ci ha reclusi.
Mai, di contro, un artista ci ha invitati alla memoria attraverso un modo più gentile e rispettoso, così come ha fatto Peter Eisenman, perché ci ha lasciati liberi. Il Memoriale infatti, pur non essendo in apparenza immediatamente leggibile, ha come postulato la libertà. Libero nell'accesso – permesso ventiquattro ore al giorno –, si offre a una soggettiva interpretazione da parte dello spettatore, partendo dalla possibile reazione emotiva causata dagli elementi stilistici astratti, capaci di coinvolgerlo in modo sensoriale: stele che crescono (o si rimpiccioliscono) a poco a poco; pavimentazione drasticamente ondulata; slancio dei blocchi in angolature differenti; temperatura interna; figure dei visitatori presenti, che appaiono e poi scompaiono come fantasmi tra i blocchi disseminati come una foresta di cemento.
Tutto al Memoriale agli ebrei uccisi d’Europa diventa ossessione sensoriale soggettiva, che ci ancora alle vittime in modo soggettivo, perché i nostri sensi sono come le impronte digitali nell’identificarci, perché la centralina, il nostro cervello, è irripetibile di soggetto in soggetto. Quel luogo diventa dunque “labirinto”, “prigione”, “incamminamento tra i blocchi di un lager”, “discesa alle camere a gas”, “sospensione” o “attesa”. Questo è stata la Shoah, mentre ogni visitatore è lasciato libero di desumerla come vuole.
Noi, confrontandoci, ci misuriamo e misuriamo soggettivamente gli effetti di quel processo tra le stele, attraverso la suggestione empatica dei sensi nella passione (patire senza dolore) fornita dall’arte. Gli esempi chiarificanti in questo senso sono tanti, come l’umanità in visita. Quando sei scolaro, puoi ricordare la ricreazione, momento in cui si è tutti fuori e mescolati. La dimensione è astratta: nessuno osserva il volto di ogni singola compagna o compagno intorno. Quella massa brulicante e vociante sono gli scolari stessi, una costante ovvia, come sempre identica a sé, tutti i santi giorni. Che cosa avviene però, quando in quella massa si scorge il compagno o la compagna che ci piace, per cui abbiamo preso una cotta? L’illeggibilità astratta in un punto di quella massa uniforme degli scolari si rarefa e abbiamo il momento soggettivo. Che riempie tutta la nostra percezione, rendendo, per paradosso, la massa circostante ancora più nebulosa.
Il memoriale ci interroga, non come soggetti in balìa di reazioni empatiche e basta, ma come soggetti chiamati a commemorare, consci di un meccanismo capace di riedificare il processo del ricordo oltre il contingente.
La memoria con Eisenman è trattata come processo insito in ciascuno, si rapporta all’umano con categorie a noi così vicine, perché ovvie di per sé, anche in modo inconscio
La memoria con Eisenman è trattata come processo insito in ciascuno, si rapporta all’umano con categorie a noi così vicine, perché ovvie di per sé, anche in modo inconscio. Coi sensi sciogliamo sentimenti che ci costringono a ricordare sulla nostra pelle. Così il Memoriale agli ebrei uccisi d’Europa si rifiuta di ricordare per noi e ci trasforma piuttosto in memoriali viventi. Noi siamo i chiamati al ricordo.
Un’opera d’arte ermetica ci tramuta in pochi attimi nello strumento più adatto di percezione e esercizio memoriale. Le emozioni passano attraverso il prisma delle stele di Eisenman creando visioni empatiche, come proiezioni soggettive dell’Olocausto in immagine e forma. È a quell’istintività che occorre dare peso, perché una volta scorta riafferma l’esercizio della memoria come un processo istintivo, facile da gestire nel momento in cui percepiamo il luogo. E se sono i nostri propri sentimenti a essere messi in causa, non c’è retorica che tenga.
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