Nell’imminenza delle elezioni europee dobbiamo constatare almeno un dato nuovo: la presenza di forze sovraniste ha per la prima volta suscitato in fase preelettorale un dibattito sull’Europa e non, semplicemente, sui problemi nazionali. Eppure, non possiamo fare a meno di notare la povertà di questo dibattito. Ci saranno anche “due idee di Europa a confronto”, ma sono due idee poverissime.
Schematizzando, l’una, quella dei sovranisti, tende a invertire la marcia di un trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali all’Ue che era già bloccato dai governi degli Stati più forti, con conseguenze potenzialmente distruttive non solo per l’Ue ma soprattutto per gli Stati più deboli fra cui l’Italia. L’altra, quella degli europeisti, si divide in troppe fazioni e nonostante questo ribadisce soltanto un paio di concetti: occorre proseguire il processo di integrazione, sia economica sia politica; occorre un’Europa “più solidale” – quale che sia la ricetta per una risposta più efficace alla crescita delle diseguaglianze economiche, alla perdita del lavoro, alle pressioni migratorie.
Questa povertà del dibattito è un fenomeno che desta meraviglia, oggi, alla vigilia di un momento potenzialmente decisivo per il nostro futuro. Ci fu un momento in cui una grande idea si presentò a svariate menti – con la massima determinatezza e chiarezza in quella di Altiero Spinelli – nel disastro finale della Seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi alla sua conclusione: questa idea destò speranze e volontà nuove. La rinascita e il rinnovamento della civiltà che agonizzava fra le rovine della guerra parvero legati a questa idea: costruire una Federazione degli Stati Uniti d’Europa. Dov’è, oggi, un’idea d’Europa che potrebbe scaldare i cuori e accendere le menti, che potrebbe cioè ispirare anche una vera resistenza al sovranismo, o addirittura una marea contraria? Certamente la maggioranza di noi non la vede più.
Eppure questa idea ha dato origine a una cosa che esiste e determina già gran parte delle nostre vite, anche se non si sa bene che genere di cosa sia, e anche se la sua esistenza è minacciata: l’Unione europea, precisamente. L’istituzione nata nel 1993 con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, la cui approvazione fu certo resa possibile da circostanze storiche particolari (il crollo del Muro di Belino, la riunificazione della Germania), ma il cui contenuto recepisce quello del cosiddetto Atto Unico, il “progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea”, che Altiero Spinelli riuscì a far approvare dal Parlamento europeo poco prima della sua morte (1986), e che costituisce, esattamente, l’inizio del processo di costituzionalizzazione degli Stati Uniti d’Europa. Ben oltre il Manifesto di Ventotene del 1944 (seconda edizione), ben oltre la nascita del Mercato comune europeo e l’istituzione delle diverse comunità e trattati che l’hanno reso possibile, a partire dal Trattato di Roma del 1957. Se non riusciamo a vedere che è questo ulteriore processo che si è inceppato, neppure possiamo più cercare di rimettere a fuoco l’idea che questo processo tendeva a realizzare: viene da questo l’indifferenza dei più per i dibattiti in corso sull’Europa.
Di questa costituzionalizzazione l’Atto Unico conteneva già le linee essenziali. E in particolare i principi di quella che sarà poi la Carta dei Diritti dell’Unione europea, cioè la prima parte di una Costituzione europea, che sarà poi recepita nel Trattato di Lisbona (2009), e che già Spinelli aveva presentato con queste parole: “Il Parlamento dichiara che il documento adottato è, nella forma, un Trattato… Ma nel contenuto è una Costituzione, una legge fondamentale, e dovrebbe quindi essere adottata in accordo con le regole dell’assemblea democratica del corpo politico che ne viene istituito”.
Vorrei dare un contributo a rendere di nuovo visibile l’idea di un’Europa che ancora potrebbe veramente esserci patria, provando a caratterizzare, nella sua ricchezza di pensiero e nella sua profondità ideale, il progetto di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa. Avrò come principale fonte visibile il pensiero di Spinelli, e come fonti forse meno visibili alcuni dei più grandi pensatori del secolo scorso, fra cui è impossibile non nominare almeno Edmund Husserl e Simone Weil, i cui scritti illuminano da due punti di vista opposti e complementari la civiltà incompiuta che l’Europa ha rappresentato, e le vie per le quali potrebbe, se lo volessimo, riprendere il cammino del compimento. Anche perché l’alternativa è sotto i nostri occhi: la distruzione di tutte le conquiste dell’Età dei diritti, l’involuzione illiberale della democrazia, e in linea di tendenza possibile la perdita stessa dei fondamenti di qualunque civiltà – la sicurezza e la pace.
Dividerò in sette tesi questo tentativo di articolare l’idea che sorregge il progetto di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa.
1. Questo progetto è la forma pratica che prende il pensiero di una civiltà incompiuta, quella europea, il cui mancato compimento fu sperimentato nella tragedia di tutta la prima metà del Novecento e in parte anche la seconda (le due guerre, i totalitarismi, poi la Guerra fredda), ma fu sentito anche come la fonte di nuove tragedie, a meno di una rimozione delle cause dell’incompiutezza.
2. Incompiuta è propriamente l’espressione moderna dell’umanesimo europeo. Una civiltà umanistica ha un nucleo normativo delicato e fragile, la cui realizzazione costituisce una rivoluzione antropologica raramente e tardivamente attuata nella storia umana, sempre parziale e sempre minacciata: l’emancipazione dell’individuo dai legami tribali e/o dalle gerarchie castali, l’accesso a una forma di “vita esaminata”, capace di chiedere ragione delle altrui credenze e decisioni e di dare ragioni delle proprie, capace infine di libertà responsabile e sovranità esistenziale, morale e politica. Diciamo, in breve, capace di accedere all’autorialità del fare materiale e dell’agire sociale, morale e politico.
3. Ancora più specificamente, incompiuto è questo nucleo personalistico dell’umanesimo europeo. Guardiamoci intorno: non ci vediamo circondati da un’umanità – soprattutto nelle cosiddette élite, a tutti i livelli – che manifesti nella media i nobili tratti della capacità critica, della passione per la conoscenza in questioni di fatto o di valore, della maturità morale e della virtù civile, o, a livelli anche modesti, i connotati della libertà responsabile.
4. Eppure, nonostante questo, riconosciamo prevalente, almeno nei momenti inaugurali delle fasi più “felici” della nostra storia, un “tipo formale di cultura” (Husserl) che corrisponde a situare la fonte di tutte le norme non nella volontà di un dio o nelle volontà umane che in suo nome parlano, ma nella cognizione diretta, discutibile, progressiva, inesauribile, dei valori e dei fatti. E nel riconoscimento, anche, dell’irriducibilità dei valori ai fatti, dell’ideale al reale, del diritto al potere arbitrario. Un’eccedenza questa perennamente a rischio, che vive solo nell’impegno etico e logico di quegli uomini che Husserl chiamava i funzionari dell’humanitas. Secondo questa idea, Europa più che un continente è una società animata da un doppio movimento di liberazione: dall'ovvio e tradizionale verso il dubbio critico e la ricerca di evidenza, dal potere dell'arbitrio al governo della legge fondata sul consenso. Questo doppio movimento può chiamarsi “filosofia”, rispettivamente in forma di ragione teorica e pratica. Ma comunque la si chiami, è la forma di vita che ha permesso di inventare la scienza e la democrazia.
5. La democrazia non è soltanto la forma di governo che mette in opera – e mette in scena, al momento delle elezioni – la sovranità dei cittadini. È un complesso metodo di organizzazione della vita sociale e politica che non è un fine in se stesso, ma un mezzo per consentire l’accesso del più largo insieme possibile di persone all’autorialità. Cioè all’esercizio effettivo della sovranità esistenziale e politica da parte di agenti irriducibilmente plurali perché individuati, incarnati, radicati, passionali – oltre che razionali e morali.
6. Dunque la democrazia, con tutte le sue insufficienze, è effettivamente l’aspetto politico di una civiltà umanistica, che solo nella modernità – o nell’età dei diritti (Bobbio) – diventa il pur fragile strumento di accesso degli individui all’autorialità personale su scala sempre più larga, attraverso le sue “generazioni di diritti” (civili, politici, sociali e culturali). In altre parole, se funziona, funziona come un circolo virtuoso, perché le democrazie promuovono la maturazione dei cittadini ma anche ne hanno un disperato bisogno. Ma se questa promozione si inceppa, il circolo si fa vizioso, e le democrazie si suicidano. La “mancata rimozione” degli ostacoli che bloccano lo sviluppo umano, cioè non soltanto economico, ma anche morale e civile, di larghi strati di persone, minaccia costitutivamente le democrazie di degenerazione illiberale, e la civiltà umanistica di implosione.
7. La grande intuizione di Spinelli, per il quale il federalismo non è semplicemente un progetto pratico-politico, ma “un canone di interpretazione della politica”, è che la rimessa in moto del circolo virtuoso della democrazia, la rimozione degli ostacoli allo sviluppo in senso personalistico, insomma la ripresa del processo di realizzazione dell’umanesimo incompiuto richiede una rivoluzione nell’idea stessa finora realizzata di democrazia (secondo il titolo di un memorandum spinelliano del 1961, The idea of Democratic Revolution). Questa rivoluzione nell’idea di democrazia è la dissociazione del concetto di sovranità da quello di nazione, basato sulla diagnosi di una crisi irreversibile degli Stati nazionali a fronte della pressione esterna e interna di forze particolari sulla vocazione universalistica del diritto pubblico (forze di entità sovranazionale, come i motori dell’economia globalizzata, ma anche “interessi organizzati che si precipitano sullo Stato e lo paralizzano quando sono in equilibrio, e ne rafforzano sempre più il carattere dispotico, quando un gruppo o una coalizione di gruppi ha potuto sopraffare l’avversario e prendere il potere…”).
In una lettera all’economista tedesco Roepke, Spinelli chiama Persönlichkheitszivilisation (civiltà della persona) la cosa “molto importante nella nostra civiltà” che “minacciava di crollare”, portando via con sé questo “prodotto tardo, delicato e fragile” che è “l’uomo civile”. Troppo poco si è compreso, a mio avviso, della peculiare profondità della versione di liberalismo politico che il pensiero di Spinelli comporta, e che qui chiamerò, riutilizzando questo termine in senso completamente autonomo da quelli in cui è finora comparso, personalismo politico. E troppo poco anche si è compreso, ancora oggi, della tragedia che fu per l’Italia la scelta anti-federalista, poi soltanto marginalmente filoeuropeistica, delle sinistre italiane ed europee. La tragedia che è durata fino ad oggi, e che forse non è stata ancora veramente compresa.
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