«Sex&Drugs&Rock’n Roll», cantavano Ian Dury and the Blockheads nell’ormai lontanissimo 1977. Eppure, dopo l’ennesima esternazione di Donald Trump – secondo la quale Hillary Clinton avrebbe vinto il secondo dibattito televisivo perché «dopata» – questo sembra essere il leitmotiv delle ultime, estenuanti, settimane di campagna elettorale. Ormai tutti non vedono l’ora che finisca anche perché dopo tanto «sesso», parecchia «droga» (non quella a cui si riferisce Trump, ma il «doping mediatico» che ha infarcito il dibattito politico sin dalle primarie) e poco rock’n’roll, non si capisce cosa altro potrebbe succedere da qui all’8 novembre. Sul «New York Times», l’autorevole Thomas Friedman ha proposto di vendere i biglietti per godersi lo spettacolo: li acquisterebbero da tutto il mondo e con il ricavato si potrebbe riportare il bilancio in attivo! La «London Review of Books», invece, ha fatto un elenco, infinito, di persone che non voteranno Trump: donne, africani-americani, messicani-americani, le persone riservate, i veterani del Vietnam, i pacifisti e così via. L’ironia è l’unica cosa che può salvare gli americani e il resto del mondo dallo spettacolo piuttosto desolante di una politica sul punto di implodere. Non solo i repubblicani sono ormai preda di una crisi di nervi, ma i democratici sono consapevole, in larga parte, che la candidatura di Hillary Clinton appare sempre più come una «polpetta avvelenata».
In un discorso pronunciato in Ohio – uno degli Stati determinanti per la vittoria elettorale – Obama ha avvertito che «civility is on the ballot», così come la tolleranza, l’onestà, l’uguaglianza, la gentilezza, la democrazia stessa.
Una drammatizzazione che deve sottolineare ancora di più ciò che Hillary Clinton ha ribadito nel corso dell’ultimo dibattito presidenziale e immediatamente tweettato: «This isn’t an ordinary time, and this isn’t an ordinary election». Chissà se i suoi speechwriters sono consapevoli che l’espressione «this is not an ordinary time» fu una delle frasi più efficaci pronunciate da Eleanor Roosevelt nel 1940 alla convention democratica per convincere i riluttanti delegati ad accettare la decisione del marito di proporre come candidato alla vicepresidenza Henry Wallace, considerato non un esponente del partito e perciò poco affidabile. Era il 1940 e i venti di guerra erano già ampiamente dispiegati in Europa e appariva evidente che gli Stati Uniti non ne sarebbero rimasti fuori.
Anche oggi i venti di guerra soffiano in tutta la loro potenza nel Medioriente (proprio oggi parte l’offensiva contro l’Isis per riprendersi Mosul), e ritornano a spirare anche in Europa con l’abbattimento quasi a zero della temperatura nei rapporti fra gli Stati Uniti e la Russia di Putin, accusata di essere dietro al tentativo degli hacker di manipolare la campagna elettorale statunitense.
L’appello alla «civility» è stato una costante del discorso di Obama a partire dal 2008. In un contesto in cui – come il Pew Research Center ha rilevato già nel 2014 – è in aumento la percentuale di chi ritiene la vittoria del candidato del partito avverso una minaccia al benessere della nazione, il tema della mancanza di «civility» nella vita pubblica statunitense è percepito come uno dei grandi problemi di cui una classe politica dovrebbe farsi carico. Nel discorso sullo stato dell’Unione dello scorso anno, Obama aveva di nuovo avvertito che una «better politics» è quella che non punta alla demonizzazione dell’altro, alla trasformazione dell’avversario in nemico, alla sollecitazione delle paure e degli istinti primordiali.
Parole che, come si può notare, sono cadute nel vuoto cosmico di una campagna elettorale che, grazie soprattutto (anche se non solo) all’irruzione del ciclone Trump, sta invece dispiegando tutte le diverse e variegate modalità di delegittimazione e demonizzazione dell’avversario/a.
Trump non ha solamente dato voce alle ansie, alle paure e all’astio della working-class bianca, ma ha contribuito a far sì che queste istanze fossero traducibili all’interno di quella modalità discorsiva che ha dominato il dibattito pubblico americano a partire dagli anni Ottanta, vale a dire quelle proprie della cosiddetta identity politics, l’affermazione orgogliosa e la rivendicazione nello spazio pubblico della «differenza». Appannaggio delle minoranze etniche e razziali e di una parte del movimento femminista, questa volta sono i white Christian nativists, uomini e donne (più uomini che donne, in verità) a portarla avanti. Un aspetto identitario che prevale su considerazioni di carattere economico o sociale e che, come in passato, finisce per sostituirsi alla determinante di «classe» per attingere a quel patrimonio semantico-concettuale prevalente che ha nutrito la retorica populista: ordinary people versus le élite ma anche contro dipendenti pubblici, welfare recipients e immigrati; comunità vs. special interests, autogoverno locale vs. centri del potere politico, economico e finanziario (Washington, Wall Street, ma anche Chicago).
Una studiosa di questi fenomeni, Arlie Hochschild, ha osservato come non sia tanto la perdita economica quanto, appunto, la perdita dell’onore e della dignità, il non essere più «the central drama» dell’azione politica a costituire la molla politica per queste persone. Da questo punto di vista, Obama ha rappresentato una figura «aliena» non tanto per il colore della pelle, ma perché espressione di una élite considerata estranea. Il suo essere un buon padre di famiglia, la sua stessa eleganza nel vestire lo rendono irritante perché ci si può rispecchiare o, meglio, il rispecchiamento rimanda l’immagine di ciò che dovrebbero essere e non sono. Anche le politiche di Michelle Obama a favore del miglioramento delle abitudini alimentari sono state viste con fastidio, non perché non ne avvertissero le ragioni, ma perché metteva in discussione il loro stile di vita, portava alla luce la loro inadeguatezza.
Infatti, il self-improvement – concetto chiave del discorso democratico americano così come si è strutturato fin dall’Ottocento – è sempre stato considerato come un processo dal basso verso l’alto, non come pressione delle élite nei confronti del popolo. E rappresenta uno strumento cruciale nella costruzione dell’individuo-cittadino perché è quello che lo rende effettivamente in grado di porsi da pari a pari, senza timore reverenziale nei confronti delle élite. Lo aveva notato anche Sombart quando, nel suo famoso Perché non c’è il socialismo in America, notava come «all’operaio non viene messo sotto gli occhi in ogni momento il fatto che appartiene a una classe “inferiore”». All’interno di questo contesto, la questione di genere assume una rilevanza cruciale, non solo perché le conquiste dei movimenti delle donne rappresentano, in questa sorta di gioco a somma zero, una perdita per gli uomini, per i bianchi working class come pure per quelli di classe media. Secondo alcuni studi, infatti, la percezione di «svirilizzazione» è stata riscontrata in alcune ricerche sul rapporto uomo-donna nel mondo del lavoro. A parità di lavoro, un uomo che dipende da una donna viene pagato meno e il suo prestigio professionale è minore rispetto a chi lavora con un dirigente maschio.
Il vero e proprio odio nei confronti di Hillary Clinton appare così non solo il frutto della tradizionale misoginia che si ritrova in tutti i contesti politici, anche quelli apparentemente più aperti. Trump ha intercettato e amplificato questo sentimento che deve essere inteso, quindi, all’interno di un’analisi più complessiva che tenga conto di diversi fattori: dalla questione della precarious manhood alla rivolta contro le élite, sino alla rivendicazione di uno status di chi si sente sempre più messo in discussione e in pericolo. Le scritte sulle magliette e sulle spille dei sostenitori del tycoon newyorchese, infatti, rimandano alla contraddizione di genere: da un lato slogan come «don’t be a pussy, vote for Trump in 2016» o «Finally someone with balls», e dall’altro scritte come «Trump That Bitch» o «Life’s a Bitch: Don’t Vote for One», e volgarità simili. A differenza della coppia Obama, infatti, Clinton è il bersaglio perfetto: ambiziosa, amante del potere, senza scrupoli, collusa con i grandi interessi economici e finanziari, incapace di trasparenza e di eticità.
L’ipotesi di Hillary Clinton (non solo di una donna) presidente rappresenterebbe la materializzazione dei peggiori incubi per una fetta non marginale dell’elettorato americano che ha già dovuto ingoiare l’elezione del primo presidente afroamericano. Per questo elettorato, però, Trump non è l’alternativa, non è l’espressione 2.0 della rivoluzione jacksoniana o delle rivolte populiste che hanno costellato la storia politica americana, perché dietro la maschera non c’è niente e questo inquieta ancora di più.
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