È opinione condivisa che la salute sia un diritto uguale per tutte e tutti. Il nostro dettato costituzionale, del resto, con l’articolo 32 pone accanto alla parola “salute” l’aggettivo “fondamentale”. Il diritto a stare bene, in sostanza, ci spetta dalla nascita: nessuno ce lo può dare, nessuno ce lo può togliere. Si tratta però, purtroppo, ancora di pura fantasia: il diritto alla salute, pur essendo un diritto, non arriva ovunque con la stessa forza. Esistono angoli di mondo (e non solo angoli) in cui ancora igiene alimentare, sicurezza sul lavoro e ammortizzatori sociali, per citare soltanto alcune delle variabili che concorrono al raggiungimento dello status di “buona salute”, sono traguardi irraggiungibili.
E, in tale profonda disuguaglianza, nonostante i vincoli posti dalla nostra Costituzione e, soprattutto, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, un ulteriore passo nella disamina del concetto di salute, se davvero lo si vuole garantire a tutta la popolazione mondiale indistintamente, può essere fatto. Decisamente. A guidare la riflessione, la definizione di medicina di genere, o, meglio, “Medicina genere-specifica”, come riportata dall’Organizzazione mondiale della sanità, ossia lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.
Quante disuguaglianze esistono nelle regioni del mondo? Disuguaglianze che, in termini socio-economici, non vorremmo più trovare, a garanzia del concetto di eguaglianza inter-individuale. E quante differenze dovrebbero invece esserci, a garanzia di un approccio che tenga conto delle variabili che caratterizzano ognuno di noi, e che invece vengono ripetutamente ignorate nel quotidiano. Piuttosto che su un generico concetto di “uguaglianza” sarebbe, infatti, corretto basarsi sul concetto di “equità”. A guidare ogni studio, ogni analisi, dovrebbe essere il raggiungimento di un livello di parità, ferme restando le diversità iniziali che caratterizzano ogni individuo.
Questa parità, come in molti altri campi, non si riscontra affatto nella scienza medica, una disciplina fin dalle origini fortemente androcentrica e che ha a lungo escluso i modelli femminili dagli studi epidemiologici di malattia e dalla sperimentazione clinica e preclinica dei farmaci, relegando gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti specifici correlati alla riproduzione. Nella ricerca clinico-scientifica, dunque, il tema delle differenze biologiche e di genere è storia davvero recente. A segnarne l’inizio è una cardiologa americana, Bernardine Healy, che nel 1991 pubblica un editoriale sul "New England Journal of Medicine", La sindrome di Yentl, ispirato proprio alle vicende di Yentl, l’eroina di un romanzo che, per poter accedere alla scuola ebraica, si taglia i capelli e si veste da uomo. Healy nell’articolo evidenzia la discriminazione che aveva nel tempo osservato sul luogo di lavoro: le donne erano significativamente meno sottoposte a indagini diagnostiche, interventi e terapie per patologie cardiovascolari rispetto agli uomini, perché segni e sintomi di malattie cardiovascolari, sino ad allora, erano principalmente stati investigati su soggetti maschili, quindi, nelle donne, poco riconoscibili.
Lo studio della salute della donna non può e non deve essere circoscritto alle patologie esclusivamente femminili e deve aver presente che la donna non è una copia più leggera dell’uomo
L’articolo suscitò molto scalpore in tutto il mondo. Ed è così che nasce la medicina di genere, il cui obiettivo è comprendere i meccanismi attraverso cui le differenze biologiche e di genere agiscono sullo stato di salute e sull’insorgenza e il decorso di molte malattie, nonché sui risultati delle terapie. Gli uomini e le donne, infatti, pur essendo soggetti mediamente alle medesime patologie, spesso presentano sintomi, progressione di malattia e risposta ai trattamenti molto diversi tra loro. Lo studio della salute della donna, dunque, non può e non deve essere circoscritto alle patologie esclusivamente femminili, ma deve rientrare nell’ambito di tutta l’analisi medica che, parallelamente al tener conto che il bambino non è un piccolo adulto, e la popolazione anziana è caratterizzata da condizioni peculiari, deve aver presente che la donna non è una copia più leggera dell’uomo.
In seguito al riconoscimento del “genere” nella programmazione 2014-2019 da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2016 finalmente in Italia si comincia a parlare a livello normativo di “genere” come determinante di salute. È poi di giugno 2019, il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere in Italia, in attuazione dell’articolo 3 della legge 3 del 2018. Il Piano si fonda su quattro principi cardine. Il primo indica che l’approccio sesso e genere specifico deve entrare in tutti i Pdta (percorsi diagnostici terapeutici assistenziali) ospedalieri, ossia nella quotidianità dell’approccio clinico alle e ai pazienti, dalla diagnosi alla cura alla riabilitazione. Il secondo principio prevede che la lente sesso e genere specifica sia applicata alla ricerca clinica e psicosociale; il terzo riguarda formazione e aggiornamento professionale, pratiche in cui la medicina di genere è ancora pressoché assente, mentre il quarto spiega che la diffusione di tale approccio deve passare anche al grande pubblico, indicando chiaramente che la comunicazione su tale tema deve essere capillare.
È davvero necessario che il Piano, comunque in vigore, ma passato in secondo piano causa Covid-19, entri presto e concretamente in tutte le realtà indicate, dai protocolli ospedalieri alle redazioni giornalistiche. L’ottica di genere, dunque, non serve soltanto per implementare le conoscenze sui diversi aspetti patologici, diversi nei segni e nei sintomi tra uomini e donne, o sulle differenze di risposta ai trattamenti farmacologici, peculiari in base al sesso dell’individuo cui vengono somministrate le terapie; l’ottica di genere serve anche per adeguare l’intervento sulla salute in modo complessivo, integrando tutti gli aspetti che concorrono con pesi diversi al benessere di ciascuno di noi. Nella sostenibilità del sistema salute deve necessariamente rientrare l’analisi dei parametri che, differenziandoci in base alle nostre caratteristiche di partenza, ci consentono di essere curate e curati nel miglior modo possibile, e dei parametri che, invece, annullando disuguaglianze e discriminazioni tuttora persistenti ci consentono un accesso paritario alle cure.
L’ottica di genere serve anche per adeguare l’intervento sulla salute in modo complessivo, integrando tutti gli aspetti che concorrono con pesi diversi al benessere di ciascuno di noi
Quanto detto deve essere visto in ottica di salvaguardia del diritto alla salute di uomini, donne, persone transgender: per l’oltre mezzo milione di persone transgender che vivono in Italia, infatti, al momento pochissime sono le informazioni disponibili sull’andamento delle più comuni malattie, senza dimenticare la mancanza di formazione del personale sanitario nell’accoglimento dei bisogni specifici di queste persone, carenza da colmare prima possibile.
In conclusione, l’applicazione dell’approccio sesso e genere specifico in medicina consentirà una migliore tutela della salute per tutta la popolazione, come previsto e disposto dal piano del 2019. La costruzione di una sanità equa e inclusiva deve diventare obiettivo primario dei governi a cominciare dalle fondamenta: l’approccio sesso e genere specifico in medicina è una base irrinunciabile se davvero vogliamo promuove la giustizia sociale.
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