I politici tedeschi non sono mai stati un modello di virtù cristalline. Negli anni Ottanta uno scandalo finanziario travolse l’intera dirigenza del partito liberale e in seguito lo stesso padre della patria riunificata, Helmut Kohl, dovette subire gli strali della giustizia per finanziamenti illeciti al partito. I casi di corruzione di vario genere non sono estranei alla vita politica tedesca. Non per nulla in Germania si diffuse fin dagli anni Novanta un sentimento di fastidio nei confronti della politica e dei partiti, bollato dall’allora presidente della Repubblica tedesca Richard von Weizsacker come "Politik und Parteienverdrossenheit". Atteggiamenti da primi della classe pronti ad ammonire e redarguire altri Paesi per le loro manchevolezze sono quindi del tutto fuori luogo.
Purtroppo è prevalso questo riflesso nella politica europea della Germania. In questi ultimi anni la cancelliera Angela Merkel si è dimostrata disastrosamente inadatta al ruolo di leader continentale che le circostanze le assegnavano. Invece di guidare con mano ferma ma con atteggiamento cooperativo la crisi economica dell’Unione, ha badato ai propri interessi nazionali. Ha potuto farlo grazie alla debolezza politica della Francia di Nicolas Sarkozy, francamente patetico nella sua impotente burbanza durante le conferenze stampe comuni con la cancelliera, all’inesistenza italiana (to say the least…) e alle difficoltà interne degli altri Paesi di media grandezza come Spagna e Polonia.
La Germania ha avuto per la prima volta l’opportunità di occupare un ruolo di leadership “palese”. Solo che ha occupato lo spazio lasciato libero dalle altrui inadeguatezze senza esercitare una leadership in senso proprio. Angela Merkel non sta guidando l’Europa fuori dalle difficoltà dell’Unione. Pensa a mantenere la propria posizione in patria, dove peraltro non riscuote molti favori – e lo si è visto nelle sonore sconfitte in tutte le ultime elezioni nei Land. Nel tentativo di resistere alla Cancelleria, non ha esitato a solleticare alcuni dei sentimenti peggiori – e più pericolosi – del proprio elettorato: l’immagine di una superiorità tedesca rispetto alle altre nazioni, soprattutto a quelle in cui fioriscono i limoni. Non siamo ancora all’evocazione di un Sonderweg, di un destino particolare, ma la strada dell’esaltazione dell’ eccezionalismo (virtuoso) tedesco è segnata. E questo nel silenzio di gran parte dell’intellighenzia. Eppure l’Unione europea è stata sempre vissuta dall’opinione pubblica e dalla classe politica tedesca come “un orizzonte di destino”, un elemento simbiotico della nazione; al momento dell’unificazione venne presentata da Kohl come una occasione per fare “più grande” l’Europa. Oggi, di quella solidarietà che la Germania ha dimostrato verso i Paesi dell’Europa centro-orientale, e nei confronti dei quali tutti gli Stati membri dell’Unione a 15 versarono fiumi di denaro in progetti di sviluppo per consentire loro di entrare nell’Ue, non c’è più traccia. Quando si tratta di aiutare Paesi fuori dell’influenza geopolitica di Berlino la borsa rimane ben chiusa.
Il ripiegamento interno del Paese cardine dell’Unione europea rischia di produrre una catena di reazioni negative nei confronti sia della Germania sia della stessa Unione. Invece, ora più che mai, abbiamo tutti bisogno di una Germania europea e non di una Europa tedesca.
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