Ripensando ai cinquant’anni che ci separano dal primo governo di centro-sinistra non c’è proprio nulla che possa accomunare quella “storia” con la situazione attuale. Non solo i contesti economici, sociali e culturali sono incomparabili, sia per la maggiore ricchezza di cui oggi godiamo nonostante la crisi, sia per una società civile molto meno irreggimentata e molto più articolata e diversificata, sia infine per un livello di istruzione e acculturazione inimmaginabile all’epoca. Anche la politica che si trova ad anni luce da quella esperienza. Allora vi erano due grandi ideologie con le rispettive chiese politiche che si confrontavano: quella cattolica da un lato e quella marxista dall’altro. Ora le espressioni politiche di quelle ideologie si sono estinte in quanto si sono isterilite le stesse fonti di ispirazione. Non esiste più una visione marxista della realtà e una sua traduzione politica; la visione cristiana, in politica, è diventata una opzione à la carte, interpretabile da chiunque (basti ricordare la manifestazione a favore della famiglia promossa dal centro-destra a cui parteciparono i quattro leader di quella coalizione, tutti divorziati: una contraddizione non di poco conto e soprattutto inconcepibile nei primi anni Sessanta).
In questi anni, tali assenze non sono state riempite da nessuno. L’irruzione del forzaleghismo a metà degli anni Novanta e il suo dilagare negli anni Duemila hanno ribaltato gli assi cartesiani della politica nazionale. Ciò che era rimasto della tradizione “socialista” – intendendo con questo termine l’evoluzione contorta e incerta dei post comunisti – ha finito per disperdersi nella “incoscienza” di sé, nella debolezza di riflessione ed elaborazione, nella sudditanza ad altre correnti ideologiche-culturali. E non ha colto ispirazione dall’esperienza de centro-sinistra degli anni Sessanta, identificata, simbolicamente, con alcune riforme che hanno inciso profondamente sulla società italiana sia sul piano delle strutture (e quindi erano sì “riforme di struttura”) sia su quello delle mentalità. In quel momento si pensò che la società italiana potesse essere riformata. Poi vennero le disillusioni, le frenate, le inversioni di tendenza.
Negli ultimi vent’anni il tema delle “riforme” è stato ossessivamente riproposto, ma nessuno ha mai avuto il respiro e la solidità concettuale di un La Malfa o di un Giolitti, di un Saraceno o di un Sylos Labini, di un Andreatta o di un Ruffolo. Il masticare formule stantie di riforme senza una visione della società è una condanna per un Paese che ormai avrebbe bisogno non più e soltanto riforme di strutture, ma di rivoluzioni che destrutturino quelle incrostazioni corporative e oligarchiche che ci trascinano a fondo.
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