Sappiamo da molti anni, e molte ricerche lo confermano, che la maledizione dell’Italia di oggi è la carenza o addirittura l’assenza di ceti dirigenti all’altezza del loro compito. Mentre i vizi sono sotto gli occhi di tutti, più difficile sembra – almeno a giudicare dal livello del dibattito pubblico – dire quali siano le qualità richieste. È sotto gli occhi di tutti l’incapacità di gran parte dei ceti dirigenti a risolvere “emergenze” che durano da decenni. È solo per una sorta di amore del paradosso che possono ancora essere chiamate così: se si ripresentano con sistematica regolarità sono infatti “emergenze normali”, mentre il termine dovrebbe indicare l’eccezionalità e/o imprevedibilità del fenomeno. Un po’ come il “precario stabile” che contraddistingue lo stile italiano del lavoro pubblico. Sono tornati ancora una volta alla ribalta, in questi giorni, i problemi gravissimi della “monnezza” in Campania, dopo che si era gridato al miracolo della sua risoluzione… Ma la stessa considerazione vale per i disastri annunciati di frane, alluvioni, esondazioni che, in un paese ad altissimo rischio idrogeologico, si ripresentano regolarmente dopo ogni pioggia prolungata, in zone ad alto tasso di abusivismo edilizio, con strutture abitative non adeguate. Queste “emergenze”, più della quotidiana negligenza, squarciano il velo sulla stoffa di chi dovrebbe governare e risolvere i problemi reali dell’Italia.Di fronte a tanto secolare sconquasso che lascia allibiti gli osservatori stranieri, troviamo stucchevoli dibattiti e altisonanti scontri sul ricambio di una classe dirigente (politica, imprenditoriale, intellettuale) basati sull’idea che una palingenesi possa avvenire di colpo, con la “rottamazione” dei vecchi e l’ascesa dei giovani. Si potrebbe proporre un altro criterio palingenetico: rottamiamo gli uomini che dominano tutti i vertici – dall’università all’imprenditoria – e sostituiamoli con le donne. Oppure il sesso e l’età insieme.
Ebbene che cos’hanno questi criteri di sbagliato? Nulla, se si intende che i giovani e le donne sono le categorie più penalizzate in un sistema che non premia il merito, ma le conoscenze giuste, il potere acquisito, le oligarchie consolidate (che sono formate da anziani e da uomini). Nulla, se si sostiene che deve esistere più mobilità generazionale e che alle donne devono essere date più opportunità per ottenere ciò che si meritano.
È fin troppo semplice ribadire che la classe dirigente italiana è vecchia e maschilista. Il problema è quello di sapere quali qualità devono possedere i nostri dirigenti, giovani o vecchi, uomini o donne che siano.
Le qualità che si richiedono a persone che rivestono o vogliono rivestire posizioni elevate nella società, che devono sovrintendere a organizzazioni complesse, prendere decisioni difficili, a volte impopolari, si possono riassumere in due parole: responsabilità pubblica e capacità progettuale. La prima rimanda al saper farsi carico non solo dei propri interessi privati ma di quelli collettivi; la seconda all’intelligenza innovativa e all’iniziativa realizzatrice.
Ma per avere una classe dirigente di qualità non è sufficiente la cooptazione di giovani (quanti giovani sono meri portaborse dei propri capi, politici o accademici?) o di donne (quante donne “arrivate” sono solo figlie o mogli di?). Ci vogliono quei dispositivi di selezione che da noi funzionano malamente o non esistono. Mi riferisco a una università di qualità e a quelle scuole di alta formazione che formano la dirigenza della pubblica amministrazione nei principali paesi europei (come l’ Ena - École Nazionale d’Administration in Francia; o la DHV - Deutsche Hochschule für Verwaltungswissenschaften Speyer in Germania ecc.).
A chi pensa che le “rottamazioni” siano la soluzione al problema di una classe politica incapace, sarebbe meglio rispondere non con l’elenco di quanti giovani sono stati cooptati nelle direzioni dei partiti, ma con la richiesta di un confronto sulle idee e sui programmi. Forse non tutti i vecchi sono da rottamare, non tutti i giovani sono da premiare.
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