Lasciando da parte le sciocchezze su una riforma del Senato che metterebbe addirittura a rischio la democrazia, ci possiamo prendere il lusso di una riflessione controcorrente. Perché su un tema tanto delicato è mancata innanzitutto, anche da parte di personaggi che dovrebbero essere qualificati, la consapevolezza di quale fosse il nucleo della questione.
Basterebbe avere letto gli atti della nostra Assemblea Costituente, per sapere che all’origine della formazione di una “seconda Camera” c’era il tema classico di trovare un sistema di “rappresentanza” che fosse diverso dalla rappresentanza delle opinioni e dei programmi che si esprimono attraverso la selezione di un personale politico imperniato su di essi. Allora ciò avveniva attraverso i partiti. Questa diversa rappresentanza, scartata l’ipotesi di farla risiedere nella rappresentanza dei corpi sociali organizzati (la reminiscenza del corporativismo fascista non deponeva a favore), fu individuata negli enti locali. La prima proposta prevedeva infatti un Senato eletto per un terzo dalle Assemblee Regionali (ancora da istituire all’epoca) e per due terzi dai consigli comunali. Attraverso un lungo e travagliato dibattito, alla fine questo impianto fu abbandonato. In fondo la gran parte dei costituenti, che erano uomini di partito, volevano una seconda Camera in cui fosse possibile tentare contromosse verso l’egemonia politica che si pensava si sarebbe affermata nella prima. I liberali e i loro alleati spinsero per avere la differenza di rappresentanza basata invece che sulla proporzionale, sul collegio uninominale. Pensavano che così sarebbe stato loro possibile aggirare il dominio proporzionalistico che la Dc esercitava su quello che pensavano fosse storicamente il loro elettorato tradizionale. Il Pci, e in specie Togliatti, sposò con un tatticismo repentino questa tesi, convinto anch’esso che ciò potesse al Sud nuocere alla Dc e al Nord consentire la vecchia politica dei “blocchi” almeno laddove i comunisti erano abbastanza forti. Siccome però il principio doveva rimanere quello della rappresentanza regionale, i collegi furono ritagliati su queste. Costantino Mortati, in un articolo sulla rivista dossettiana “Cronache Sociali”, denunciò senza giri di parole tanto la strategia del Pci quanto l’obbrobrio di avere trasformato il concetto di regione “in una circoscrizione elettorale”.
Da questo punto di vista la storia si ripete e, come diceva il buon vecchio Marx, in termini di farsa. Ancora una volta infatti la dinamica è la stessa: una classe politica preoccupata di star perdendo il contatto con il proprio retroterra popolare e con questo il proprio ruolo parlamentare non ne vuole sapere di una organizzazione del sistema di rappresentanza che sia basato su un concetto diverso da quello della rappresentanza di una classe politica più o meno professionale. Ciò che veramente stupisce a questo punto è che nel dibattito sia stata totalmente assente la voce delle regioni e dei governi locali che in astratto dovrebbero trarre legittimazione ulteriore e giovamento da una Camera imperniata sulla loro “rappresentanza”. Il fatto è che il regionalismo, per non dire il federalismo, non è una componente della cultura politica delle nostre classi dirigenti. A loro bastano i meccanismi di contrattazione della conferenza Stato-regioni, per non dire dei mille canali particolari con cui ogni governo locale traffica con i ministeri. Le classi dirigenti locali non si sentono espressione e di conseguenza non si sentono “rappresentative” di entità territoriali con una loro pregnanza, ma sono piuttosto pezzi del “cursus honorum” (nel migliore dei casi) o dello spoil system interno ai partiti. Dunque in fondo anche a loro va bene un sistema che riproponga un Senato fatto per distribuire qualche ruolo politico-individuale in più.
Federalismo o regionalismo hanno avuto vita stentata nel nostro Paese. O sono serviti come leva polemica per farsi strada, per poi essere abbandonati quanto la porta d’ingresso nel sistema era stata forzata (vedi la Lega), o hanno ballato una sola estate, come fu al tempo dell’insediamento delle regioni a statuto ordinario con i vari Bassetti, Gorrieri, Fanti e via elencando. C’è la parziale eccezione delle regioni autonome (almeno le migliori), ma quelle sono già sistemate così.
La vera debolezza del Ddl Boschi è stata tornare a credere che nel Paese il recupero della rappresentanza “delle autonomie” avesse un impatto. Senza questa base trovare la famosa “quadra” sul progetto di riforma del nostro sistema di rappresentanza sarà un’impresa quasi impossibile. A meno di non considerare come tale un aggiustamento da funamboli del diritto.
Lo fecero già alla Costituente e non si può dire che quello sia stato un precedente riuscito.
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