Tra la cacofonia di opinioni sulla guerra emerge un termine che sembra – o si cerca di far apparire come – lo spartiacque fra le parti in disaccordo: la complessità. Che la guerra sia un fenomeno complesso è tragicamente evidente, ma che cos’è questa complessità? E quali rischi si celano dietro una simile, conclamata dichiarazione di complessità?

Nel dibattito italiano sulla guerra in Ucraina sovente c’è chi controbatte o inizia il proprio intervento dicendo “ma guardi che è più complesso”. Condivido alcuni appunti che spero possano servire da “corrimano analitico” per non illuderci e perderci nella complessità –spesso semplicistica – suggeritaci da molti opinionisti, alcuni analisti e pochi studiosi.

Non esiste monocausalità per i fenomeni politici, storici e sociali. Marc Bloch nel 1941 scriveva: “nella storia, il feticcio della causa unica è troppo spesso solo la forma insidiosa di ricerca del responsabile, da qui un giudizio di valore. […] Il monismo di causa può essere, per la storia, solo un impedimento”.

La concatenazione di episodi, l’intrecciarsi di reazioni strategiche, le inclinazioni valoriali che annebbiano una lettura razionale degli eventi – e molti altri fattori – complicano la capacità di capire il perché ci sia una guerra e come fermarla. Però E.E. Schattschneider, riflettendo sulla complessità della politica, ci ricorda: “nessuno si vanti di aver scoperto il caos perché il caos è la cosa più facile al mondo da trovare! Ci vuole intelligenza per dare un senso alla politica, ma ci vuole intelligenza per dare un senso a qualsiasi cosa. La scienza politica […] inizia con il caos ma non finisce qui”. Il dire che qualcosa è complesso senza delinearne gli elementi – ad esempio attori, valori, interessi, ed arene – e senza selezionare quelli salienti per una spiegazione, diventa dunque un atto retorico anziché analitico. È una postura di (apparente) sofisticatezza verso coloro che sarebbero naif riduzionisti. Ma una postura di (supposta) superiorità non porta necessariamente a una superiorità esplicativa e analitica. Dunque, è la complessità la soluzione contro la parsimonia esplicativa? Molti hanno criticato la parsimonia: Albert O. Hirschman intitolava un suo saggio Contro la Parsimonia (1985) e attaccava gli assunti troppo riduzionisti dell’economia ortodossa, notando che una “caratteristica fondamentale degli esseri umani è che sono esseri autovalutanti”. Dunque, gli oggetti di studio ‑ anche nella guerra ‑ essendo soggetti (e non meri oggetti) si adattano, cambiano comportamento e strategicamente dissimulano propositi. Ma chi conosce Hirschman sa anche che si possono creare schemi parsimoniosi per comprendere proprio la complessità della politica, si pensi alla sua imperitura triade analitica “lealtà, defezione e protesta” per spiegare diversi comportamenti all’interno di organizzazioni complesse.

Sostenere che qualcosa è complesso senza delinearne gli elementi – attori, valori, interessi, arene – e senza selezionare quelli salienti per una spiegazione, diventa dunque un atto retorico piuttosto che analitico

Charles Tilly, che intitolava “It depends” uno dei suo ultimi capitoli nel manuale Oxford di Contextual Political Analysis, raccomandava di ragionare sempre sul ruolo della condizionalità (e dunque la complessità) delle relazioni politiche e sociali. Ma Tilly divenne anche famoso per un suo adagio parsimonioso: “la guerra ha fatto gli Stati e gli Stati hanno fatto le guerre”.

Duncan Snidal, in un saggio che tutti coloro che sono interessati alla politica internazionale dovrebbero leggere (The Game Theory of International Politics), scrisse: “la semplicità in realtà accresce il potere della teoria di cogliere la complessità”. Il rischio altrimenti è quello delineato nel breve racconto di Jorge Luis Borges – Del rigor en la ciencia – dove il creare mappe con scala 1:1 di un regno ‑ e dunque creare una descrizione assoluta della realtà anziché creare uno strumento per esplorare la realtà ‑ portò solo al decadimento e disastro di quel regno. Il descrivere la complessità senza cogliere gli elementi centrali di un fenomeno politico come la guerra è rappresentato visualmente dal grafico creato dalle forze americane di occupazione dell’Afghanistan. Quel grafico cercava di spiegare relazioni fra attori, azioni e interessi durante l’occupazione: un groviglio di frecce, un enumerare esorbitante di attori, un annotare eccessivo di azioni. Il “New York Times” lo definì “a bowl of spaghetti”, una scodella di spaghetti. Il general Stanley A. McChrystal presentando la slide con quel grafico di una complessità estrema disse “quando avremo capito questo grafico, vinceremo la guerra”. Dopo vent’anni di occupazione gli americani ‑ senza un preavviso agli alleati ‑ hanno lasciato l’Afghanistan ai talebani. Senza vincere quella guerra, senza aver mai capito la complessità di quel grafico.

James Fearon ‑ con la parsimoniosa “spiegazione razionale della guerra” – ci dice che le cause principali della guerra sono le asimmetrie informative fra le parti che portano a bluffare e dunque a provare atti di forza. Un altro fattore centrale è il così detto “problema dell’impegno”, in base al quale non è veramente possibile fidarsi di ciò che un altro Stato ci promette perché è assente un “governo globale” in grado di garantire il rispetto e l’esecuzione dell’accordo. Infine, un’altra possibile causa si presenta quando la questione al centro del conflitto ha una natura indivisibile – si pensi alla simbolicità di alcuni territori o luoghi – e dunque la logica della forza non può essere limitata dalla grammatica della mediazione. Ma ben venga il non affidarsi a una teoria molto parsimoniosa di fronte alla complessità della guerra: aggiungiamoci inoltre le dinamiche interne ‑ e dunque istituzionali ‑ presenti anche nei regimi dittatoriali come fa Jessica Weeks; oppure ragioniamo sulle esperienze militari e di guerra dei leader di un Paese, aggiungendo il ruolo dell’individuo e non solo della struttura materiale di un paese. Possiamo anche aggiungere come la socializzazione di norme ‑ quali l’onore – possa portare al fare la guerra, sottolineando d’altra parte come pure la risoluzione dei conflitti spesso sia legata alla reputazione delle parti coinvolte. Tuttavia, il dubbio rimane: stiamo parlando di complessità o di spiegazioni parsimoniose alternative? E quanto possiamo rendere più complesse le nostre spiegazioni e riuscire ancora ad usarle in questo mondo caotico?

Seva Gunitsky ragionando su complessità e parsimonia nello studio delle Relazioni internazionali suggerisce che esistono tre tipi di parsimonia analitica: estetica, ontologica ed epistemologica. Secondo l’autore le prime due non sono adatte per ottenere teorie utili nelle scienze sociali: quella estetica si basa solamente sul criterio di “semplicità come bellezza” e quella ontologica – che ha forti assunti sulla natura della realtà sociale ‑ conduce a una fuorviante equipollenza delle scienze sociali con leggi fisiche deterministiche. Tuttavia, una parsimonia epistemologica – del come studiare la realtà sociale ‑ può esserci di grande aiuto. I nostri argomenti esplicativi possono essere intesi come una mappa che rappresenta la realtà politica ‑ ma ovviamente non può rappresentare la realtà politica con scala 1:1 – che ci aiuti a navigare, esplorare e capire la complessità della politica. Questa parsimonia, al contrario di una complessità esasperata, migliora la possibilità di un disegno di ricerca e la verificabilità empirica di un argomento, portandoci via dal pantano delle opinioni.

Una certa parsimonia, al contrario di una complessità esasperata, migliora la possibilità di un disegno di ricerca e la verificabilità empirica di un argomento, portandoci via dal pantano delle opinioni

La complessità, se presa seriamente, dovrebbe farci pensare meglio. Non concediamoci scorciatoie retoriche, fallacie logiche e povertà empirica quando parliamo di guerra. Spesso la complessità di qualcuno è solo una semplicità – non parsimonia – di qualcun altro: “Non servono le armi per la pace, armiamoci di dialogo” oppure “solo le armi porteranno la pace”. Ma dunque il dialogo come si conduce con chi usa la violenza? Si può fare deterrenza con la retorica? E la mediazione si fa solo con le armi? Un padre della teoria della deterrenza, Thomas Schelling, elaborava in The Strategy of Conflict (1960) la complessità dell’uso della deterrenza – “una teoria di un abile non-uso della forza militare” – dove anche sanzioni economiche e mediazioni diplomatiche hanno un ruolo centrale. Si noti – ad esempio – un parallelo nei dibatti accademici: si critica la spiegazione della guerra come un fallimento della contrattazione razionale fra gli Stati – si veda Fearon sopra – e si aggiunge la complessità delle norme e ideologie. E poi si conclude che lo scoppio di una guerra è mero frutto di differenze ideologiche/normative, che spesso diventano categorie caricaturali come “civiltà” o “imperi”. Da una mono-causalità a un'altra mono-causalità, mascherando la semplificazione con un preambolo sulla complessità. La morte della complessità risiede nella tautologia: se si vuole la pace, facciamo la pace. Coloro che hanno studiato la pace e che anche pensano e fanno un pacifismo attivo, sanno bene che la formazione, il personale e le azioni per portare alla pace richiedono tempo e finanziamenti. Non chiamiamola complessità, il rischio della tautologia è illuderci della facilità del comprendere e fermare uno dei fenomeni più tragici come la guerra. La complessità non può eliminare l’indeterminatezza delle nostre spiegazioni. Alcuni difendono la complessità contro spiegazioni parsimoniose, ma poi abbracciano le loro spiegazioni in maniera determinista, “se si fa così, allora si risolverà”. La complessità, nella sua serietà, ci dovrebbe invece far armare di spirito critico e accortezza, portandoci a una riluttanza sistematica verso il determinismo. Se si vuole contrastare un discorso mono-causale con complessa multi-causalità non si può eccedere nella certezza. La complessità se viene spiegata con analogie storiche deve metterci in guardia. Che una situazione complessa passata possa essere direttamente comparabile con la complessità di oggi è assai difficile. Si noti che il comparare e fare controfattuali è la base del pensiero scientifico nelle scienze sociali. Il problema è quali analogie storiche ci concediamo e come possono essere pericolose o fuorvianti. Ieri c’era chi si aspettava grandi successi nell’imporre la democrazia liberale in Afghanistan e Iraq, come ‑ dicevano ‑ si fece dopo la Seconda guerra mondiale in Giappone e in Germania. Oggi c’è chi usa la crisi dei missili cubani del 1962 tra Stati Uniti e l’Unione Sovietica come comparazione tra le azioni Nato e l’invasione Russa in Ucraina. Oppure chi sostiene oggi una no fly zone in Ucraina, perché l’abbiamo fatto in Iraq e in Libia.

La complessità è solo caos se da essa non si possono enunciare politiche concrete e fattibili. Spesso chi inneggia alla complessità non riesce o non vuole delineare aspetti pratici e interventi fattibili. La complessità diventa paravento (pseudo)logico dietro al quale si nascondono l’assenza di meccanismi causali e argomenti. Se la complessità non riesce a declinare proposte di politiche precise e specifiche, che vadano al di là di un pungolo critico o azioni mirabolanti, esaurisce la sua funzione nel dibattito e comprensione della guerra e della pace.

Le mie riflessioni sono a favore di una costruzione complessa degli argomenti, ma non possiamo rinunciare a un pensiero parsimonioso. Pensiero che ci dovrebbe portare a valutare argomenti alternativi, fattori che non abbiamo considerato e rischi di conseguenze inaspettate. Filosofi e scienziati sociali ‑ che giustamente pongo critiche e incitano al dubbio ‑ non usino la complessità solamente come espediente retorico. Karl Deutsch ci ammoniva: “la guerra, per essere abolita, deve essere compresa. Per essere compresa, deve essere studiata”. È essenziale studiare la guerra e non eliminare la guerra dal nostro dibattito oggi, ma anche domani. Forse essere più cauti sulla retorica della complessità potrebbe portare qualche vantaggio: il rischio è dirsi per la complessità, ma sostenere semplificazioni fallaci.