Sembra proprio che l’unica linea di frattura della politica italiana rimasta sia quella tra laici e cattolici. Una frattura che, tanto per restare nel solco di una solida tradizione, passa attraverso la maggioranza di governo. L’occasione è l’approssimarsi della discussione finale sulla legge Cirinnà. L’obiettivo è disciplinare – a nove anni dalla falsa partenza dei Dico – l’unione civile tra cittadini e cittadine dello stesso sesso.

Con il sostegno esplicito della Conferenza episcopale, il Family Day del 31 gennaio ha risposto alla mobilitazione delle famiglie «arcobaleno». Il risultato non poteva che essere un surriscaldamento della polemica politica. A partire dal rifiuto del nuovo istituto dell’adozione del figlio di uno dei partner da parte dell’altro, prima la piazza e poi la politica hanno avanzato la prospettiva di cancellare del tutto la nuova legge. Col pretesto di sbarazzarsi di un problema ritenuto di minimo interesse per la collettività.

Questo quadro suggerisce alcune osservazioni su certe curvature della dialettica che accompagna la tematica dei diritti civili e il contrasto laici-cattolici. Un primo rilievo riguarda proprio il Family Day. Una mobilitazione che sa di vecchio, oltretutto incongrua rispetto alle aperture avvenute nel pontificato di Francesco, anche sul tema degli omosessuali. Si è rivista la passerella dei politici contrari alla nuova legge, di maggioranza e di opposizione, mescolarsi alla grande platea dei movimenti cattolici convenuta al Circo Massimo – e puntualmente intervistati dai cronisti dei vari telegiornali.

Lo scontro è diventato rovente e più incerto, soprattutto dopo che Beppe Grillo è tornato in scena a dare la linea: voto di coscienza per i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Come dire: il Partito democratico non può contare sul nostro voto in favore della legge. Una mossa per non perdere visibilità ma non priva di rilevanza politica, nel momento in cui rende più plausibile una bocciatura della legge, almeno in quella parte che riguarda la stepchild adoption.

Eppure il progetto originale aveva intrapreso una strada che avrebbe dovuto ottenere l’apprezzamento del mondo cattolico. Nel caso dei Dico proposti dal governo Prodi nel 2007 si prevedeva l’unione civile tra omosessuali come una fattispecie di un più generale istituto delle unioni civili, rivolto a tutte le coppie, eterosessuali o no. Questa volta la legge in discussione limita l’istituto alle sole coppie omosessuali: «quelle eterosessuali hanno già il matrimonio e non c’è bisogno di altro», concluse Renzi nel presentare il nuovo disegno di legge oltre un anno fa. A me pareva (e pare ancora) un modo sensato per prendere definitivamente le distanze dalla prospettiva del matrimonio tra omosessuali, così deprecata dal mondo cattolico.

Ma quali sono le motivazioni contro la legge Cirinnà e in particolare contro l’adozione del figlio del/della partner? Perché i più costruttivi componenti del fronte cattolico chiedono comunque l’esclusione di questa norma per poter votare gli altri articoli del testo? L’unico punto ossessivamente ricorrente nelle dichiarazioni è il rischio dell’utero «in affitto». Detto altrimenti: se passa la stepchild adoption si aprirà la pratica di generare figli ricorrendo a donne disponibili a portare avanti la gravidanza e consegnare poi il neonato alla coppia richiedente. Certo, se questa disponibilità implica un prezzo l’espressione «utero in affitto» diventa una formulazione pertinente, con tutte le riserve morali che comporta l’intrusione del mercato in una materia così delicata, così sacra anche per chi non è cattolico.

Ma se questo è il punto, allora che c’entra una norma votata dal Parlamento italiano? La legge non è in alcun modo in grado di dare inizio a questa pratica discutibile, per il semplice ma decisivo motivo che questa pratica esiste già. Non solo, essa continuerà a esistere anche se il disegno di legge Cirinnà dovesse soccombere sotto una montagna di voti contrari in Parlamento. In primo luogo perché la legge intende riconoscere sul piano istituzionale non solo le coppie omosessuali future, ma anche quelle che già esistono, molte delle quali hanno già figli, alcuni dei quali agitavano palloncini nelle piazze dove manifestavano le famiglie arcobaleno. Questa è la realtà di oggi, legge o non legge.

D’altra parte quella parte del mondo cattolico che si oppone a questa legge dovrebbe aver fatto tesoro del bizzarro destino della legge 40, quella che in termini molto, molto, restrittivi legalizzava l’inseminazione artificiale, escludendo quella eterologa, limitando il numero degli embrioni da impiantare e vietando la diagnosi pre-impianto. Una legge che (paradossalmente ma non troppo) era stata corroborata proprio dagli «indignati» di parte laica che avevano in fretta e furia promosso un referendum abrogativo – fallito poi per difetto di quorum, com’era ampiamente prevedibile.

Ma la legge 40, pur così tonificata dal mancato quorum del voto popolare, è stata comunque del tutto smantellata da una serie di sentenze che ne hanno individuato diversi profili di incostituzionalità. Nei primi anni di applicazione l’effetto più evidente della legge fu l’aggiramento dei vincoli attraverso l’exit. Recandosi fuori confine le coppie italiane hanno fatto ricorso alla fecondazione eterologa (quando non all’utero in affitto), in sicurezza e con costi accessibili a larghi strati di cittadini e cittadine desiderosi di avere un figlio ad ogni costo. Non rose e fiori, certo, ma prospettive di successo comunque più ampie rispetto ai vincoli della legge italiana.

Che cosa ci insegna il destino della legge 40? Ci insegna che il mondo è più grande, più vario e più complesso di quanto può disciplinare in tema di diritti una norma di legge di un Parlamento – soprattutto se quel Parlamento è in Europa e i suoi cittadini godono di buoni livelli di reddito e di informazione.

Non ha senso affondare una legge perché la si ritiene capace di incentivare l’utero in affitto (per riprendere questa greve formulazione, brandita come clava). Le vie della genitorialità surrogata sono varie e tutte sono attive da anni. Per restare nella prospettiva del mercato: la mancata approvazione della legge non creerà un boom né tantomeno indurrà una crisi del settore. Ci sarà un’unica differenza e sarà a carico dei più deboli, i figli. L’unico esito sarà impedire ai figli di avere una tutela pari a quella dei figli di coppie eterosessuali. Come dire: quando avranno bisogno di un ricovero in ospedale per essersi lussati il polso giocando a pallone o cadendo dalla bici potranno contare solo sull’assistenza di uno dei genitori, essendo l’altro formalmente un estraneo.

Alla fine la mancata approvazione della stepchild adoption, o dell’intera legge, avrà le sue vittime certe: i figli delle coppie omosessuali, che si ritroveranno davvero diseguali rispetto ai figli delle coppie eterosessuali, sposate o meno che siano. Per tacere poi del fatto che l'adozione sarà sempre decisa da un giudice, il che già mi pare una promessa di attese e di spese.

Il credente ha ovviamente tutti i diritti di dissentire, di considerare inammissibile che una coppia di omosessuali abbia dei figli, e tutta la libertà di manifestare questo dissenso, ma dovrebbe possedere anche la sensibilità di considerare i figli – tutti i figli – un bene comune.