Fa discutere in Germania l’idea di introdurre, come requisito per l’accesso alla cittadinanza, una formula che attesti da parte del richiedente il riconoscimento dello Stato d’Israele. Sulle modalità concrete non c’è ancora chiarezza ed è possibile che si tratti più che altro di trovate di politici in cerca di visibilità; in generale soluzioni di questo tipo, inevitabilmente tecniche e burocratiche, hanno sempre convinto poco. Tuttavia, una discussione esiste ed è forse il caso di spendere qualche parola.
La questione può essere formulata in questi termini: può lo Stato che ha realizzato l’Olocausto chiedere a chi fa ingresso nella comunità politica la condivisione di quello che Angela Merkel ha chiamato, in un discorso del 18 marzo 2008 di fronte al Parlamento israeliano, la Knesset, parte della ragion di Stato (Staatsräson) della Repubblica federale, vale a dire l’esistenza dello Stato d’Israele?
Occorre innanzitutto sottolineare che esistono fondati dubbi sul precipitato normativo di questa formula e, più precisamente, del rapporto tra Staaträsone diritti fondamentali e del suo utilizzo nello Stato di diritto: spesso si ripete che la formula di Merkel costituisce un impegno politico, capace di guidare la politica delle istituzioni tedesche (vincolata alla sicurezza dello Stato d’Israele), privo, però, di immediati effetti normativi o vincoli giuridici. Va pure ricordato che la reazione all’attacco terrorista del 7 ottobre scorso ha visto un ritorno dell’utilizzo della formula e, soprattutto, della difficoltà di un suo utilizzo anche solo come principio in politica estera. È quindi possibile una critica radicale della formula: «Una simile ragion di Stato, utilizzata come un mero riferimento astratto, non giustificata né da interessi statali né da considerazioni morali concrete, non è espressione di “responsabilità” ma, al contrario, di irresponsabilità. [...] La ragion di Stato tedesca [...] viene ora trattata come se fosse un obbligo imposto dall’esterno che priva la Germania della libertà di scelta anche quando si tratta del rispetto della legge». La formula sarebbe una scorciatoia per evitare di assumere responsabilità. Altri dubbi possono essere fatti valere sulla nozione di antisemitismo e sulla difficoltà di estrarne conseguenze giuridiche vincolanti. Il Grundgesetz e, in particolare, i diritti fondamentali conterrebbero già indicazioni per intervenire in queste materie, evitando pericolosi sbandamenti, come un sostegno incondizionato alle politiche del governo israeliano.
Il discorso può essere condotto, però, anche su un altro piano, probabilmente ancor più interessante, che non riguarda solo il mondo tedesco.
La risposta alla domanda dipende dal modello d’integrazione che si sceglie. Provando a ridurre la discussione ai minimi termini, i conservatori tedeschi – ma non solo – da sempre propongono una Leitkultur, una cultura guida, alla quale tutti e tutte, cittadini come pure cittadini potenziali, sono chiamati a ispirarsi. In questo senso, non sarebbe problematico considerare anche l’esistenza dello Stato d’Israele come parte della Leitkultur. Al contrario, il “patriottismo costituzionale”, nella versione di Jan-Werner Müller, potrebbe considerare inaccettabile la formula nel senso di una condizionalità all’ingresso nella comunità politica; un’opzione quindi da scartare, anche perché, come veniva ricordato sopra, essa rischia di de-responsabilizzare i soggetti titolari dell’azione politica, uno dei cardini del Verfassungspatriotismus. Ma difficilmente potrebbe negare il valore della sicurezza dello Stato d’Israele quale principio cardine della discussione pubblica, del vivere civile e della cittadinanza.
Dalla fine degli anni Cinquanta in poi, è stato il mondo progressista a fare dell’antisemitismo e del rapporto con Israele una vicenda centrale della Repubblica federale tedesca
Perché dalla fine degli anni Cinquanta in poi, è stato il mondo progressista a fare dell’antisemitismo e del rapporto con Israele una vicenda centrale della Repubblica federale tedesca. Diversamente dall’“antifascismo di Stato” nella Ddr, nella Repubblica federale è stato un movimento soprattutto “dal basso” a riportare al centro della discussione pubblica sull’Olocausto: il processo Eichmann (celebrato in Israele) e quello Auschwitz sono stati resi possibili dall’azione martellante di Fritz Bauer. Il Sessantotto tedesco nasce innanzitutto nel conflitto generazionale e nel confronto con la guerra del Vietnam. Lo Historikerstreit è degli anni Ottanta ed era legato proprio alle valutazioni sulla unicità di Auschwitz e al suo ruolo nella costruzione di una comunità politica decenni dopo la fine della guerra.
Già allora, ma lo ha ripetuto anche oggi, Jürgen Habermas aveva chiarito che il rapporto tra la Repubblica federale e lo Stato di Israele non poteva essere “normalizzato”: non si trattava di qualcosa che poteva essere superato con il tempo.
Insomma, la memoria dell’Olocausto, la sua “unicità” e la difesa dello Stato d’Israele sono elementi che hanno contraddistinto la storia tedesca del secondo Dopoguerra e, in particolare, il tentativo di fare del “Mai più Auschwitz” un principio che guidasse la politica tedesca – per quanto sempre traballante e di difficile applicazione: si potrebbero ricordare i travagli dei Verdi nel corso delle guerre nella ex Jugoslavia fino alla decisione di intervenire in Kosovo.
A questo proposito ormai da tempo ricorre un’obiezione. L’unicità dell’Olocausto viene smentita o relativizzata da chi, invece, lo iscrive nella storia dei genocidi europei e, in particolare, nella storia coloniale. Proprio su questi temi negli ultimi anni si è sviluppato in Germania quello che è stato chiamato un Historikerstreit 2.0. Non si può entrare qui nel merito di questa disputa, tuttavia, seppur per cenni, vorrei ribadire che se il dibattito storico è sempre aperto ed è giusto che anche l’Olocausto riceva la sua storicizzazione, politicamente le cose sono su un altro piano.
Contrariamente a quanto spesso si crede, la questione dell’Olocausto non è il senso di colpa: quanto farne una sorta di specchio in cui ritrovare l’abisso a cui la nostra società è arrivata. Per evitare di ripiombarci
Contrariamente a quanto spesso si crede, la questione dell’Olocausto non è il senso di colpa: sono ancora illuminanti le riflessioni di Karl Jaspers in La questione della colpa come pure quelle che Willy Brandt fece dal processo di Norimberga sulla distinzione tra colpa e responsabilità per contestare l’idea di una “colpa collettiva”, di tutto il popolo tedesco. L’obiettivo è sempre stato farne una sorta di specchio in cui ritrovare l’abisso a cui la nostra società è arrivata. Per evitare di ripiombarci una seconda volta. E se pure altri orrori sono stati compiuti dopo Auschwitz, il monito che da esso proviene non è venuto meno.
I primi quarant’anni della Repubblica federale non sono serviti (solo) a mantenere in piedi la memoria, quanto a cercare di capire quale responsabilità derivasse per coloro che abitano il Paese che aveva realizzato Auschwitz, che, dunque, non scompare mai. Fortunatamente: perché se è vero che è un peso complicatissimo da elaborare, non si capisce bene quale bussola morale e politica possa sostituirlo. A maggior ragione in un’epoca in cui ritorna la guerra e aumentano i conflitti.
La connessione con i crimini coloniali è inutilizzabile dal punto di vista politico: il colonialismo è stato superato innanzitutto per la reazione dei popoli colonizzati. E se oggi noi riteniamo che sia qualcosa di sbagliato e da condannare senza appello, lo dobbiamo ai decenni di lotte di quei popoli. Auschwitz e l’antisemitismo non hanno a che fare tanto con “gli altri”, quanto con noi stessi: è un meccanismo diverso dal razzismo, si rivolge al nemico interno, ai suoi stessi cittadini.
Se eliminiamo l’unicità dell’Olocausto e le conseguenze che da essa derivano, su quali basi è possibile costruire una critica del mondo attuale?
In questo senso, tornando alla domanda iniziale: può essere un requisito dell’accesso alla comunità politica? Formulata in questo modo, la questione rimanda a una burocratizzazione che ne svilisce il senso e forse ci induce a rispondere negativamente. Tuttavia, c’è una domanda che riguarda un campo più ristretto, quello della politica: se eliminiamo l’unicità dell’Olocausto e le conseguenze che da essa derivano, su quali basi è possibile costruire una critica del mondo attuale?
Si può ritenere che il richiamo di Auschwitz non possa più essere adoperato proprio perché le società si sono evolute e pluralizzate, perché l’esperienza storica è fondamentalmente individuale o al massimo di tante micro-comunità che si autorappresentano a partire dalle proprie differenze, vere o presunte, con la parte considerata maggioritaria. In una simile condizione, Auschwitz non avrebbe più senso, proprio perché non solo distante temporalmente ma anche perché il rifiuto di condividere quella storia sarebbe considerato un atto di giustizia nei confronti dei nuovi arrivati (“la colpa è vostra non mia”). Chi parte da questo punto di vista pensa che siamo ormai di fronte a una “feticizzazione” dell’Olocausto, finalizzata a nascondere la nascita e le politiche di Israele, ultima operazione del colonialismo europeo.
Ma se è così, il rischio vero è che a essere superata sia l’idea stessa di convivenza e di comunità alla quale siamo abituati. La società non sarebbe altro che il risultato delle interazioni tra singoli nella loro unicità ed esclusività. Se nemmeno Auschwitz è qualcosa che segna tutti (i tedeschi o gli europei, nuovi o vecchi) perché tutti, a diverso titolo, condividiamo questa civiltà e la sua storia, con i suoi pregi e i suoi difetti, allora non c’è davvero nulla che può unirci. Se la storia non è più capace di legarci e di impegnarci a costruire un mondo nuovo, ma è solo il terreno sul quale organizzare una sorta di tribunale per quanto successo in passato che “riequilibri” il presente, la stessa idea di convivenza è trasformata: valgono solo le interazioni dei gruppi che meglio riescono a organizzarsi.
Se, invece, ci riconosciamo parte di qualcosa, che è proiettata verso il futuro ma ha radici nel passato, con la sua storia e le sue contraddizioni, la questione è diversa. Se il vecchio continente dovrà investire anche nello strumento militare per fronteggiare l’evoluzione delle relazioni internazionali, non appare secondario, per generazioni come la mia che non hanno visto e conosciuto direttamente la guerra, continuare a disporre di bussole precise: siamo davvero convinti che una società individualizzata, senza storia e ipocritamente universalista, sia un orizzonte preferibile alla scelta di portare insieme il peso del passato e di decidere insieme come rispondere a quello che ci riserva il futuro?
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