«Non so come ho fatto ad arrivare fin qui – ad avere imparato così tanto, a essermi convinto nel profondo della necessità di cambiare – eppure a dubitare ancora che cambierò. Secondo te c’è speranza?
Che cambierai?
Che l’umanità arriverà a capire.»
Sono le prime battute di un immaginario scambio tra lo scrittore Jonathan Safrar Foer e la sua anima. Dialogo che costituisce uno dei capitoli del libro, pubblicato nel 2019 (in Italia da Guanda editore), dal titolo Possiamo salvare il mondo, prima di cena.
Il film Don’t look up, di cui tanto si sente parlare in questi giorni, sembra richiamarlo. Si chiude con una cena, al termine di uno sforzo estenuante da parte di alcuni scienziati volto a far comprendere alla società l’importanza e l’urgenza della partita che si sta giocando: una cometa con un diametro poco inferiore ai dieci chilometri si dirige verso la terra e, se non si prendono seri e tempestivi provvedimenti, causerà una catastrofe – l’estinzione dell’umanità. Sei mesi a cercare di far prendere sul serio la realtà, ma intorno solo un grande blablabla. Sembra così non restare altro tempo se non per sedersi intorno a un tavolo con le persone care, e attribuire a quel momento di convivialità il valore di un’occasione per ricordare i bei momenti passati, per raccontare i segreti inconfessabili, per improvvisare una preghiera. Potevamo salvare il mondo prima di cena, ma non l’abbiamo fatto.
Sedersi intorno a un tavolo con le persone care, attribuire a quel momento di convivialità il valore di un’occasione per ricordare i bei momenti passati, raccontare i segreti inconfessabili, improvvisare una preghiera. Potevamo salvare il mondo prima di cena, ma non l’abbiamo fatto
Se è una cena a chiudere il film, ad aprirlo è una colazione. I primi secondi sono rappresentati da uno schermo nero e un rumore di bollitore di sottofondo (eco della cometa che si muove ai confini dell’universo?). Poi ecco una mano che versa dell’acqua bollente in una tazza e spalma della confettura su una fetta di pane tostato. Poche inquadrature più tardi scopriremo che è la mano di Kate Dibisky (Jennifer Lawrence), dottoranda in astronomia e coprotagonista del film insieme allo scienziato Randall Mindy, interpretato da Leonardo DiCaprio. Al momento, però, quella mano protetta da un guanto sfilacciato potrebbe essere la nostra.
È bene immedesimarsi tutti nella condizione di partenza, nessuno escluso: siamo noi, prima di scorgere distintamente con i nostri occhi la minaccia, nel nostro vivere ordinario, consapevoli certo dei grandi temi che preoccupano il nostro mondo ma pur sempre indaffarati a fare altro.
Al di là del decidere se Don’t look up di Adam McKay sia un capolavoro o meno, credo ci offra quantomeno qualche spunto per la lista dei buoni propositi da mettere in atto nell’anno appena iniziato.
La pellicola mette in luce varie sfaccettature dell’ipocrisia e senza troppi sforzi ci ricorda che l’immagine vale più della verità e che il profitto conta più della solidarietà. Meryl Streep, nei panni della presidente degli Stati Uniti Janie Orlean, sfoggia completi dai colori sgargianti che non sembrano risentire delle cattive notizie che si rincorrono nella Stanza Ovale e si mostra indifferente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i principi ispiratori e i doveri di un capo di governo che si rispetti. Anche la televisione preferisce edulcorare i toni e camuffare la verità: chi grida al pericolo viene bandito dal palinsesto dei programmi tv e bollato come pazzo sui social.
Il film racconta le diverse reazioni alla scoperta della cometa da parte della comunità scientifica e della Nasa, da parte del governo e, più in generale, delle lobby politico-finanziarie, da parte dei mass media, da parte della gente comune. Anche quest’ultima si comporta in un modo che lascia perplessi: preoccupazione sì, ma non così alta da spegnere i social, non abbastanza da perdersi un concerto della star del momento né da dimenticarsi di scattare una foto allo scienziato ormai divenuto un’icona. Dont’t look up vuole essere una fotografia dei nostri giorni: un invito a riflettere sulla crisi climatica ma anche sul modo in cui stiamo affrontando la pandemia e su quanto questo evento ci abbia cambiato. «Ma è tutto una formula» risponde lo scienziato Mindy al dottor Teddy Oglethorpe che lo invita a spiegare quello che sta succedendo senza ricorrere a un linguaggio troppo specifico. Dopo quasi due anni di pandemia, come dargli torto. Siamo circondati da numeri, dati, grafici e funzioni.
Guardare Don’t look up, riflettere sul suo contenuto dolceamaro, ma anche solo percepire la temperatura eccezionalmente mite di questi giorni di inverno, mi ha portato a riprendere in mano uno dei libri del Novecento che affronta la questione ecologica da un punto di vista filosofico: Il principio responsabilità di Hans Jonas, pubblicato nel 1979.
Filosofo tedesco di origine ebraica, allievo di Heidegger e compagno di Hannah Arendt, con l’avvento del nazismo fu costretto ad emigrare: si rifugiò dapprima in Gran Bretagna, quindi in Israele e infine in America. L’interesse nei confronti del rapporto tra uomo e natura fu influenzato certamente dal periodo storico in cui visse ma anche da una sensibilità crescente nei confronti degli sviluppi della tecnica e dal timore di eventuali effetti, in particolare la possibilità che questa si riveli una minaccia per l’essere umano e, più in generale, per la vita su questo pianeta (la cosiddetta «vergogna prometeica» teorizzata da Gunther Anders, il quale considerò come rappresentativo dell’epoca postbellica piuttosto il «principio disperazione»).
La storia dell’uomo è intrinsecamente legata al progresso delle arti e delle tecniche, che hanno permesso nel corso del tempo di costruire città e aumentare le nostre conoscenze. La capacità di trasformazione di cui l’uomo si è reso protagonista, gli ha certamente infuso fiducia, al punto da fargli dimenticare - salvo rare occasioni - che no, non era lui il padrone del mondo e che doveva dimostrare rispetto nei confronti del suolo che calpestava e dell’ambiente che consentiva la sua presenza. Finché l’uomo è stato capace di dominare sulla tecnica e di averne il controllo, la questione di un’etica specifica non è stata avvertita in modo così pressante; è diventata urgente, però, nel momento in cui l’imponenza e la prepotenza delle sue invenzioni hanno vanificato la pretesa di sottoporle a controllo da parte dell’individuo, divenendo un qualcosa completamente al di fuori della sua portata. Quello che è cambiato, secondo Jonas, è l’essenza stessa dell’agire dell’uomo: a un tipo di azione limitata nel tempo e nello spazio, le cui ricadute appartengono al «qui e ora», subentra la possibilità di un’azione che sfugge qualsivoglia tentativo di circoscrizione, portando a conseguenze in una dimensione spaziale molto più vasta e coinvolgendo persone che ancora non sono. Basta aprire l’opera del filosofo tedesco e leggere le prime tre righe: «Il Prometeo irresistibilmente scatenato […] esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo». La premessa del filosofo Jonas è che a questa novità dell’agire devono per forza di cose, per urgenza di cose, seguire nuove concezioni dell’etica e della responsabilità. Quest’ultima, infatti, non si limita più al prendersi cura di chi mi è accanto ma coinvolge anche le generazioni future che abiteranno la terra. E non solo.
Con lo sviluppo implacabile della tecnica, la responsabilità non riguarda solo l’essere umano ma assume come oggetto la natura stessa. «Un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera biosfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere», scrive Jonas.
Con lo sviluppo implacabile della tecnica, la responsabilità non riguarda solo l’essere umano ma assume come oggetto la natura stessa
La potenza della tecnologia (oggi aggiungeremmo lo stile di vita non curante dei suoi possibili effetti in termini di povertà e di inquinamento) è causa di danni irreversibili al pianeta. Il filosofo a questo proposito ci ricorda che l’antidoto alla distruzione lo si può trovare solo guardando in faccia al problema, secondo quella prospettiva che è l’autore stesso a denominare «euristica della paura». Il problema e la sua soluzione sono due facce della stessa medaglia: è stato l’uomo attraverso il progresso scientifico tecnologico ad aver reso possibile la «distruzione del pianeta» ed è l’uomo attraverso il progresso scientifico tecnologico a poter trovare il modo per uscirne e per arginare, qualora sia troppo tardi per risolvere, il problema.
Essere spettatori di un film che mette in scena la catastrofe trova allora la sua utilità se ci fa parlare, ancora una volta, dell’impegno profuso per la causa, se ci ricorda che non è ancora abbastanza e se induce a domandarci da che parte ci posizioneremmo: guarderemmo in alto o in basso? Nell’incertezza, lasciandoci provocare dalle parole scritte oltre quarant’anni fa da Hans Jonas – «Proprio l’avvenire di ciò di cui si ha la responsabilità costituisce la dimensione futura più autentica della responsabilità» – potremmo quantomeno guardare avanti.
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