Sono passati quasi vent’anni da quando Susan Moller Okin pubblicava, sulla «Boston Review», Is Multiculturalism Bad for Women?. Con questo articolo l’autrice si proponeva di denunciare una verità spinosa. Le minoranze etniche e religiose presenti nelle nostre società sono discriminate e mal tollerate, e per questo chiedono riconoscimento e tutele. Ma le loro culture sono spesso intrise di misoginia e improntate a una concezione patriarcale della famiglia e del mondo. Accomodare, tutelare e accettare indiscriminatamente queste minoranze e loro culture significa rinchiudere per sempre le donne appartenenti a quei gruppi in un mondo fatto di prevaricazione, abusi, sottomissione e violenza.

L’articolo di Okin portava ancora una volta alla coscienza un dato che si ripete costantemente nella storia del femminismo e dei movimenti per i diritti delle donne: nonostante le donne appartengano al novero dei gruppi oppressi che combattono per una giusta causa, non è detto che le loro battaglie vadano sempre a favore delle altre giuste cause e degli altri gruppi ingiustamente oppressi. E viceversa.

I fatti di Colonia possono essere letti come l’ennesimo episodio di questa storia che si ripete. Ma lo stesso copione si ritrova, in queste settimane, nelle discussioni intorno all’appello lanciato in Italia da Senonoraquando Libere contro la pratica della maternità surrogata, entrato in collisione con le battaglie per il riconoscimento delle coppie omosessuali e le unioni civili. Si tratta di vicende molto diverse per ambientazione, ripercussioni e contesto, ma che sono accomunate da una stessa dinamica e uno stesso duplice meccanismo di silenziamento delle istanze delle donne e del dibattito sui loro diritti.

Il primo meccanismo di silenziamento è diretto ed evidente. È successo anche in questi casi quello che è accaduto altre volte in passato, ossia che di fronte allo scontro fra le rivendicazioni avanzate in nome dei diritti delle donne e le giuste istanze di riconoscimento da parte di altri gruppi si è chiesto alle donne di fare un passo indietro. Nel caso di Colonia, sembra ormai appurato che almeno in un primo momento le autorità abbiano cercato di mettere a tacere le notizie sulle aggressioni e le violenze commesse nella notte di Capodanno. E nelle settimane precedenti, come hanno denunciato associazioni femministe e operatori impegnati nella gestione dell’emergenza profughi, lo stesso silenzio era calato sulla lunga serie di violenze e abusi sessuali avvenuti negli alloggi in cui erano stati ammassati donne e uomini in condizioni di pericolosa promiscuità. Quando le notizie su queste violenze sono diventate finalmente oggetto di discussione pubblica, si è insistito sul pericolo che le denunce potessero alimentare la xenofobia e sull’insofferenza nei confronti dei rifugiati già presenti nella società tedesca.

Nel caso italiano, la questione della maternità surrogata, prima di poter essere discussa pubblicamente nel merito, è stata travolta dal timore che potesse minare la causa della legge sulle unioni civili in discussione in Parlamento. Eppure dovrebbe essere evidente che le condizioni nelle quali la maternità surrogata viene praticata in molte parti del mondo, compresi alcuni Paesi occidentali, pongono spinose questioni etiche e politiche che riguardano da vicino la causa dei diritti delle donne. Ma anche solo sollevare il problema crea problemi di coscienza a tutti coloro che caldeggiano la causa dei diritti civili degli omosessuali. Si rischia di offrire una facile sponda agli istinti repressivi e omofobi presenti nella nostra società. E ancora una volta tocca alle donne fare un passo indietro. Nei due casi agiscono identici meccanismi, che portano a silenziare le voci delle donne e la possibilità di un libero dibattito pubblico sui loro diritti e la loro libertà.

Ma a entrare in azione in questi casi, come in altri in passato, è anche un secondo e più subdolo meccanismo, che provoca una rimozione ancora più pericolosa delle questioni in gioco. Infatti, la cosa più grave che succede, quando nel dibattito pubblico emergono contrapposizioni fra gli interessi e le rivendicazioni di gruppi minoritari e quelli delle donne, è che proprio il problema del genere finisce per essere rimosso completamente dalla visuale. Di volta in volta la questione dell’ingiustizia di genere viene traslata e di fatto neutralizzata perché l’attenzione viene spostata su qualcos’altro.

Nel dibattito pubblico sui fatti di Colonia, la questione che è diventata centrale è la «cultura» dei nuovi arrivati. La determinante fondamentale di quello che è successo è la loro provenienza, non il fatto che si tratta di maschi. Nel dibattito italiano, sono le coppie omosessuali che adesso si trovano a espiare le colpe di secoli di violenza sul corpo delle donne, di azzeramento della loro libertà riproduttiva e di sfruttamento sessuale del Terzo mondo. Il genere esce di scena; in primo piano sale l’orientamento sessuale. Così, di volta in volta la questione dell’ingiustizia e della violenza di genere viene dirottata, rimossa, rimandata e di fatto mai pienamente affrontata.

Questo duplice movimento, alla fine, va a scapito dei gruppi che di volta in volta sono identificati come nemici di turno delle donne, ma penalizza anche e soprattutto le donne stesse. È importante che si continui a denunciare la «trappola» in cui si cade ogni volta che si dà credito a questa rappresentazione della realtà (come di recente ha provato a fare fra gli altri, nel dibattito italiano, Paola Concia). Ma una soluzione va cercata anche in una migliore orchestrazione e coordinazione politica, prima che le questioni approdino alla soglia del dibattito pubblico già predisposte per essere falsate in questo modo. Un’orchestrazione e coordinazione che questa volta, in Italia, purtroppo non sono riuscite.