Nell'autunno del 2000, la «passeggiata» (così venne poi ricordata) di Ariel Sharon, allora capo dell'opposizione al Parlamento israeliano, alla spianata delle Moschee fu la miccia che fece esplodere la cosiddetta «seconda intifada». In quell'occasione, chiedemmo ad Aldo Zargani, autore e amico scomparso lo scorso anno, l'articolo che poi uscì sul numero 6 di quell'anno.
Quanto sta accadendo in Israele in questi giorni ci sembra renda ancora attuali molte delle riflessioni che Zargani presentava nel pezzo. Per questo lo riproponiamo all'attenzione dei nostri lettori.
Israele è parte della mia vita da cinquantacinque anni: non scriverò analisi politiche, sociali, economiche di un conflitto che dura quanto me. Anzi, dentro di me. Sono sempre stato appassionato sostenitore, lo confesso, delle ragioni di Israele che tuttavia non ho mai difeso in modo insincero e incondizionato. Almeno spero. Sono stato sionista da ragazzo, lo ammetto, e ho smesso di esserlo senza peraltro rinunciare ad appoggiare, sulla strada della pace innanzitutto, quel lontano paese così vicino, lo dico senza pudore, sì, lo dico per scansare ogni equivoco, così vicino… al mio cuore. In fondo sono un membro anch’io, forse nemmeno tanto anomalo, della potente, ma immaginaria, lobby ebraica mondiale.
Molte volte ho visitato la Palestina, Israele e territori occupati. Ho misurato quegli sconfinati deserti, quegli angusti spazi sovraffollati, ne ho interrogato ansiosamente gli abitanti, arabi ed ebrei, ho sperato e mi sono deluso, ho tremato e mi sono rincuorato. Come potrò mai dimenticare la speranza ingenua di quando ho visto una giovane soldatessa israeliana che a sud di Beer Sheva viaggiava sull’autobus? Che viaggiava nel deserto accanto a un vecchissimo beduino con le dita della mano intrecciate all’arto calloso dello strano profeta contemporaneo e dormiva fiduciosa, appoggiata alla sua spalla…
Come potrò mai dimenticare la speranza ingenua di quando ho visto una giovane soldatessa israeliana che a sud di Beer Sheva viaggiava sull’autobus? Che viaggiava nel deserto accanto a un vecchissimo beduino con le dita della mano intrecciate all’arto calloso dello strano profeta contemporaneo e dormiva fiduciosa, appoggiata alla sua spalla…
Sentimenti. Si sa, i sentimenti sono ingannevoli, ma la serena geometria della spianata delle Moschee – con le due cupole che raffigurano la luna e il sole, corpi celesti fermi per sempre a illuminare Gerusalemme di una luce musulmana – si accoppia nei miei sentimenti alla laicità, modesta e mediterranea, della capitale degli ebrei del mondo, Tel Aviv. Che non riesce ad affrancarsi, per fortuna!, dalla condizione di «baraccamento provvisorio», sfrontato, coraggioso e polacco.
Ma ho visto anche Jenin, quando già quella città era amministrata dai Palestinesi, strangolata dall’accerchiamento israeliano e stravolta dall’odio: «Certo che conosco l’ebraico» mi disse il sindaco nel suo ufficio, sotto il preoccupante e profetico manifesto di un bambino col mitra «l’ho imparato durante i miei dieci anni di carcere. Le galere israeliane sono la nostra Berlitz School». Un ricordo sgradevole, certo, ma non peggiore di quello di una colonia oltranzista nei territori occupati, dormitorio vuoto di giorno dei propri abitanti, con però Biancaneve e i sette nani di gesso che ghignano nei giardinetti e sorvegliano l’inutile presenza ebraica sulle colline di Samaria.
Molte volte ho patito per le sorti di quella parte del mio popolo, che ho scoperto da bambino un giorno di luglio del 1945. Un anno sospetto, quello, perché così carico di avvilimento, speranze e revanche.
Conosco bene le date, io, e mi illudo che tutti le conoscano. Il 1948, il 1956, il 1967, il 1973, il 1982, il 1991 e ora il 2000. Ma non sarò io a ripetere qui il significato che spetta a quegli anni che si susseguono a intervalli tanto regolari. Dirò solo che rappresentano eventi monotoni: il rifiuto arabo, il conseguente ricorso alla forza da parte degli ebrei, il permanere del rifiuto arabo e il persistere della rappresaglia. Un implacabile alternarsi di paranoia e depressione. Molte volte ho sperato che il ciclo infernale si interrompesse, e per anni, dopo i colloqui di Oslo, sono stato sicuro che fosse la volta buona. Spariti i blocchi mondiali contrapposti, attenuate le interferenze ostili dei paesi arabi, finalmente i rappresentanti dei due popoli sedevano uno di fronte all’altro e, fra mille contraddizioni e lentezze, andavano, seppur recalcitranti, verso il compromesso.
E invece, nel settembre del 2000, il conflitto è riesploso, allo stato puro. Guerra di religione? Odio razziale? Comunque sia gli ebrei restano astuti, simulatori, infedeli, implacabili e prepotenti, mentre gli arabi sono fanatici, forsennati, suicidi, xenofobi e barbarici. Ognuno recita il suo miserabile copione e non sa di fare pietà.
Gli ebrei: «astutamente parlano di pace mentre vogliono la guerra», «spingono la loro simulazione fino a linciarsi da soli», «profanano la spianata delle Moschee coi piedoni infedeli di Ariel Sharon», «sparano nella testa ai bambini piccoli che gli lanciano le pietruzze», «accerchiano coi carri armati i miti paesini arabi e spadroneggiano nei territori occupati». Gli ebrei esercitano rappresaglie contro le vendette.
Gli arabi: «strillano Allah è grande per ottenere qualche rettifica di confine», «si celebrano funerali all’impazzata», «si fanno sparare i propri bambini», «lapidano gli innocui e pacifici coloni della striscia di Gaza», «urlacchiano qua e là il loro sogno di cancellare gli ebrei». Gli arabi proclamano vendette contro le rappresaglie.
Al di là degli aspetti pittoreschi, sanguinosi e insopportabili, va detto che, nel 2000, la ripetizione ossessiva del conflitto si presenta finalmente nei suoi termini essenziali. Una percentuale enorme degli arabi non accetta, e forse non accetterà mai, uno Stato ebraico nel territorio della mezzaluna fertile, e gli ebrei, divisi fra di loro come di consueto, sono però concordi nella loro condizione più avvilente: «Non vogliamo mai più essere vittime, preferiamo essere crudeli». La condizione di Shylock, quella del «Mercante di Venezia», sì, che pretende per contratto pezzi di carne umana per poi proclamare, di fronte alla platea allibita, la sua appartenenza appunto alla razza umana.
In questo autunno, nella tradizionale sceneggiata mediorientale sono anche però accaduti alcuni fatti nuovi: i cittadini israeliani arabi si sono ribellati anch’essi con i loro fratelli dei territori occupati e ne hanno ricevuto in cambio dagli ebrei repressione, e questo passi, è triste ma non è una novità, ma anche pogrom, e questo è proprio intollerabile per un ebreo sentimentale come me. Anzi, è intollerabile, punto e basta: girano in Israele teppisti crudeli che non vedono l’ora di far fuori un arabo purchessia? L’arabo della porta accanto? Questo vuol dire che tutto è peggiorato, a mia insaputa. Finora non era mai successo, nemmeno in occasione degli attentati più atroci che i terroristi arabi avevano, appunto, architettato allo scopo di suscitare negli ebrei proprio quelle reazioni belluine che rendono impossibile qualsiasi forma di convivenza: come un tempo in Algeria?
Un secondo fatto è che – con l’eccezione del solito e noioso Noam Chomsky, che in questa grottesca tragedia si prodiga da decenni a rappresentare la figurina paradossale dell’ebreo antisemita – anche gli ebrei del mondo, me compreso, si sono chiusi in una solidarietà assoluta con i fratelli d’Israele. Nessun appello da firmare, promosso dagli «ebrei di sinistra», questa volta, per la «pace nel Medio Oriente»…
È una solidarietà anche disperata perché tutti noi ci rendiamo ben conto delle responsabilità di Israele in questo infernale pasticcio, nel quale le colonie dei territori occupati e le provocazioni della destra oltranzista hanno un ruolo non certo secondario. Ma che fare, che pensare d’altro, in un’epoca nella quale ci rendiamo conto sbigottiti che i conflitti non sono da attribuire solo alle responsabilità delle classi dirigenti, come ingenuamente pensavamo un tempo, ma anche alla volontà dei popoli di scannarsi reciprocamente, non appena possibile?
E gli altri, quelli che non sono ebrei? È accaduto che, una volta passato il raccapriccio per il bambino arabo e per i soldati ebrei trucidati davanti alle telecamere, attenuato lo scandalo mediatico, il mondo ha dimostrato di infischiarsene delle schioppettate del Medio Oriente, se non per qualche timore per il prezzo del petrolio.
E gli altri, quelli che non sono ebrei? È accaduto che, una volta passato il raccapriccio per il bambino arabo e per i soldati ebrei trucidati davanti alle telecamere, attenuato lo scandalo mediatico, il mondo ha dimostrato di infischiarsene delle schioppettate del Medio Oriente, se non per qualche timore per il prezzo del petrolio.
Di quest’ultima novità non mi stupisco né mi adonto, perché ritengo fisiologica la stanchezza e la noia di fronte a un ripetersi insulso di avvenimenti così simili a distanze di tempo tanto regolari. È naturale che ebrei e arabi vadano a far parte, anche loro, della soffitta degli orrori irrimediabili, nella quale stanno riposti alla rinfusa cattolici e protestanti dell’Ulster, Utu e Tutsi, Baschi, Corsi, Ceceni, tutto un popolo di bambini morti, bombe, moncherini, rancori e disperate, quanto vane, chiamate in causa di terzi. Insomma è successo che, a cinquantacinque anni dalla Shoah e dalla fine del colonialismo, gli arabi e gli ebrei si siano calati da soli nel dimenticatoio che tutto sommato si meritano.
Gli arabi di Israele sono scesi dunque nelle strade, e questo non ha generato stupore in chi si accontentava di una visione semplificata nella quale gli arabi di Israele sono cittadini di serie B annichiliti dal terrore. Io invece sì, mi sono dolorosamente stupito. Non erano così stereotipi cittadini di serie B quei geometri arabi della Cooperativa Edile Tnuva, Confederazione del Lavoro, che nella Israele ancora potentemente socialdemocratica del 1978, nel kibbutz Gevulot si divertivano come matti a farsi scambiare da me per ebrei, e nel contempo guardavano dall’alto in basso i veri poveracci, lavoranti palestinesi di Gaza, che sudavano a giornata negli aranceti. Fra mille confusioni e contraddizioni gli arabi israeliani per lunghi anni erano stati un piccolo capolavoro della Israele laica, tollerante, universalista e socialista. E ora si trovano anch’essi presi in mezzo in qualche meccanismo di degenerazione sociale che io, nel mio ottimismo, avevo sempre trascurato.
Vediamo che cosa può essere successo. Può essere che l’infido Arafat abbia creduto di raccogliere attorno a sé quel consenso che non ha più, di raccoglierlo attraverso l’inutile rivendicazione della spianata delle Moschee, per obbiettivi che aveva già abbondantemente ottenuto dall’infido Barak sulla carta e che, per mezzo di un trucco, potevano apparire alle sue masse diseredate come la finta vittoria di una finta rivolta. E invece questo Walter Pidgeon, piccolo dottor Morbius in versione semita, ha scatenato i mostri dell’Id, quelli di «Pianeta proibito». Infatti la sua «fantasia araba» si è subito trasformata in guerra di religione, e i miei azzimati geometri sono scesi in strada anch’essi per difendere Al Haqsa, la Moschea della Roccia, dall’oltraggio dell’ebreo infedele.
E, mentre Barak impaziente concedeva tutto con imprudenza per presentarsi al Parlamento con un accordo già fatto, Ariel Sharon (lui, che viene da un altro film sui serial killer) con una passeggiatina faceva entrare tutta la regione nel Technicolor, Cinemascope della guerra «islam contro ebraismo». Ma i miei geometri, mentre berciavano: «Allah u aqbar» (Dio è grande), si sono trovati lungo la strada di fronte l’ebreo nuovo, il teppista balcanico che sogna la pulizia etnica.
Certo, la guerra di religione sembra un fatto nuovo per «l’insanguinato scacchiere mediorientale», invece non è il motivo dominante della contrapposizione fra arabi ed ebrei, bensì la risultante attuale di una mostruosa semplificazione di un conflitto che dura da troppi decenni.
Dal 1948 al 1967 gli arabi si sono tranquillamente tenuti, per vent’anni, i Luoghi Santi di Gerusalemme – e hanno trasformato il Muro del Pianto in un pisciatoio – ma questa quieta soddisfazione non ha modificato allora in nulla il loro rifiuto della presenza ebraica nel Medio Oriente. Può sembrar duro il tono di questa mia affermazione, me ne rendo conto, ma dietro di essa si cela tutta la mia indignazione nei confronti dei Luoghi Santi ebraici, cristiani e musulmani che, come mostruose Cernobyl spirituali, emanano tutto attorno un campo di forze mortale che uccide la ragione umana. La condivido, questa indignazione, con il mio amico Avraham Yeoshua, che ha affermato giustamente di essere del tutto indifferente all’incendio della tomba di Giuseppe. Anch’io.
Tutta la mia indignazione nei confronti dei Luoghi Santi ebraici, cristiani e musulmani: che, come mostruose Cernobyl spirituali, emanano tutto attorno un campo di forze mortale che uccide la ragione umanaMio nonno, mi raccontava la mamma, nel 1929 sospirava sconsolato: «Fintanto che non andremo d’accordo con gli arabi, non ci sarà pace in Palestina». Sarà bene capire perché un piccolo industriale ebreo di Torino fosse così avvilito nel 1929 sul futuro del sionismo.
«All’inizio del XX secolo, Hebron era una città musulmana, con una piccola, antica comunità ebraica, in gran parte di pii seminaristi. Nei disordini arabi del 1929, 67 ebrei di Hebron furono massacrati. Il rimanente della comunità abbandonò la città all’inizio dei disordini arabi del 1936-39. (Enciclopedia Britannica)».
I disordini del ‘29… i disordini del ‘39…: dieci anni, i soliti dieci di intervallo, e altrettanti per arrivare al 1948 in modo da agganciarsi alla sequenza di cui sopra… Nel 1967, dopo la guerra dei sei giorni, i «pii seminaristi» sono tornati a Hebron, trasformati in rabbinacci armati che hanno intrapreso una spaventosa guerra di religione per tornare in possesso delle tombe dei patriarchi e far pari dei conti del ‘29.
Se è vero che gli arabi risultano intrappolati in un ciclo ripetitivo di paranoia e depressione, è anche vero che, a loro volta, gli ebrei pure sono vittime di altri cicli infernali. Uno di questi è rappresentato dalla, seppur incompiuta, laicità dello Stato di Israele, che viene vista con uguale raccapriccio dall’estremismo religioso ebraico in nulla dissimile da quello islamico.
Nel 1969 un ragazzo arabo che avevo incontrato per le vie di Gerusalemme e invitato a pranzo al ristorante arabo «Salah-ed-din» (ottimo, sotto ogni punto di vista, andateci, meriterebbe almeno due stelle della guida Michelin) per sentire che cosa pensava di questo o di quello, un ragazzo arabo educato dai missionari benché musulmano, si mise a parlarmi del kibbutz. Di quella istituzione noiosa, socialista, moralista, mitissima e già allora al tramonto, mi disse: «Praticano l’amore libero, vanno in giro con le donne tutte nude, disprezzano la vita umana, quella propria e quella degli altri, si ubriacano tutte le sere». Meglio non avrebbe potuto dire un rabbino oltranzista.
Israele fu una creazione laica ma la componente religiosa, che all’inizio era minoritaria e contestava per lo più il movimento nazionale ebraico, è cresciuta a dismisura e ha condizionato la vita culturale, morale e politica dello Stato di Israele. La cui struttura laica, oserei dire civile, è rimasta incompiuta proprio in conseguenza dei ricatti del fondamentalismo religioso. Le cause di questo fenomeno sono assai complesse, e meriterebbero un loro studio a parte. Qui voglio accennarne solo una: nel 1948 i Paesi arabi compirono l’incredibile errore di cacciare i propri compatrioti ebrei che, trasferiti in Israele, vi portarono la loro cultura così diversa dal freddo razionalismo dei padri fondatori.
Non voglio comunque attribuire ai rabbini tutte le responsabilità della situazione attuale perché sarebbe ingiusto, ma sottolineare invece che, a differenza di quel che pensano tante anime belle, le pulsioni religiose, cristiane, ebraiche e musulmane, a dispetto delle apparenze e delle periodiche riunioni ecumeniche, sono fieramente contrarie a ogni forma di convivenza che non sia quella di ghetti contigui e incomunicabili.
Israele è l’unica realtà democratica nella vastissima area del Medio Oriente ed è anche lo Stato più laico che ivi si trovi. Quando si sottolineano le responsabilità di Israele nella terribile vicenda che sconvolge il Medio Oriente, si insiste giustamente sugli errori che lo Stato ebraico ha compiuto. E ne convengo anche se sospetto ogni giorno di più che il contenzioso permarrebbe qualora gli israeliani si fossero sempre «comportati bene». Ma ci sono dei comportamenti di Israele, come per esempio il suo puro e semplice esistere, le sue ineliminabili contraddizioni interne, il suo seppur incompiuto laicismo, la Corte suprema, le scuole pubbliche, che suscitano nelle masse arabe così pittoresche con le loro palandrane e i loro shadòr, un odio implacabile: Israele non è solo ebraico per gli arabi, è anche l’Occidente, il piccolo Satana alleato col grande Satana. Mi chiedo quali sarebbero i vantaggi culturali per noi, cittadini dell’Ovest, se Israele, invece di essere, come è, l’odiato simbolo della modernità, fosse quel che probabilmente gli arabi accetterebbero meno malvolentieri, e il Vaticano amerebbe: un grosso ghetto folcloristico abitato da pii seminaristi in caffettano e cernecchi, allucinati nelle loro elucubrazioni talmudiche quanto i loro vicini nelle proprie disquisizioni coraniche. E invece Israele, purtroppo soprattutto per lui, rappresenta, forse suo malgrado, la sfida della modernità.
Ma come essere severi con i musulmani e gli ebrei se sul quotidiano «L’Avvenire», 8 novembre 2000, si legge: Il fast food non è «cattolico». Lo afferma il docente di Patrologia Massimo Salani, secondo il quale «l’hamburger riflette quel rapporto individualistico tra uomo e Dio instaurato da Lutero. Inoltre è la completa dimenticanza della sacralità del cibo, visto che nei MacDonald’s si cerca il pasto veloce, si soddisfa la fame in fretta per poi dedicarsi ad altro». Salani propone un «fronte ecumenico delle religioni contro le biotecnologie. Il cibo è donato da Dio, e non può che trovare un terreno comune tra i credenti».
Sì, anche da noi in Europa si può essere preoccupati per il crescere dell’integralismo, ma torniamo al nostro triste Medio Oriente.
Finché è durata l’illusione socialdemocratica, le classi dirigenti di Israele sono riuscite, con errori e compromessi talvolta vergognosi e sempre provvisori, a tenere a bada non solo la crescente componente religiosa, ma anche quella nazionalista che diveniva sempre più determinante man mano che ci si allontanava dalle origini rivoluzionarie dello Stato di Israele. «Gli arabi sono sempre uguali, noi ebrei invece stiamo peggiorando» è l’imprudente frase che ho cercato invano di accreditare allo scoppio di questa intifada bis.
Alcuni mesi fa invece – quando tutto nel Medio Oriente sembrava camminare, seppur lentamente, verso il meglio – avevo coniato un’altra di queste frasette delle quali sono tanto orgoglioso e che invece mi procurano più guai che altro: «Bisogna aver pazienza con i palestinesi, poiché essi, poverini, sono stati vittime di un’invasione barbarica».
Fu la parola «barbarica», mal accettata da tutti, che mi costrinse ad abbandonare in tutta fretta il debolissimo aforisma. Infatti io intendevo qualcosa di paragonabile al racconto del Gibbon in Decadenza e caduta dell’Impero romano, di quando i Goti, pressati dagli Avari, dai Vandali, dagli Unni, chiesero e ottennero, «per pietà», di varcare il fiume Prut, e iniziarono così l’invasione e la trasformazione dell’Impero.
Con l’aggettivo «barbarico» volevo cioè sottolineare soltanto che gli ebrei avevano invaso la Palestina spinti da una necessità primordiale. E qui emergeva una prima grave debolezza del mio temerario aforisma perché esso presupponeva che l’interlocutore sapesse che l’invasione era iniziata già all’epoca del processo Dreyfus e dei quasi coevi pogrom zaristi. Credevo cioè che tutti sapessero che gli ebrei andavano in Palestina, ma soprattutto nelle Americhe, a milioni, dall’inizio del secolo XX, scacciati dall’Europa in un succedersi sempre più feroce e anomalo di persecuzioni e rifiuti, ultimo dei quali la Shoah.
Ecco perché mio nonno aveva ragione a sospirare sconsolato nel 1929. E sospiro io, come lui, e sospirerò finché non vedrò almeno profilarsi la fine di questo «conflitto di lunga durata», e sarebbe meglio abbandonare questa obsoleta terminologia maoista per chiamarlo col suo vero nome: «interminabile strazio».Fra il 1897 dunque, e il 1945, gli ebrei, spinti dai loro Unni, chiesero e ottennero di varcare il Prut, portando con sé parecchi bagagli contraddittori tra i quali il messaggio inconscio della loro temeraria modernità. Volevo sottolineare l’anacronistica infamia di una fuga di massa di un intero popolo nel corso del XX secolo. Che si apre con gli ebrei tutti in Europa, e si chiude con gli ebrei divenuti americani o asiatici.
Ecco perché mio nonno aveva ragione a sospirare sconsolato nel 1929. E sospiro io, come lui, e sospirerò finché non vedrò almeno profilarsi la fine di questo «conflitto di lunga durata», e sarebbe meglio abbandonare questa obsoleta terminologia maoista per chiamarlo col suo vero nome: «interminabile strazio».
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