All’inizio di febbraio il presidente dell’Anica, Francesco Rutelli, ha concesso un’intervista a “Milano Finanza” sullo stato e le prospettive del comparto cinematografico. Rileggerla oggi fa impressione: i timidi segnali di ripresa della produzione italiana nel 2019 autorizzavano a prevedere un anno di assestamento, in cui si sarebbe potuto affrontare questioni da tempo in sospeso, relative soprattutto all’attuazione completa della legge Franceschini. La pandemia ha spazzato via il cauto ottimismo e portato in primo piano aspetti (sempre presenti, ma meno visibili in condizioni normali) della trama industriale del sistema cinematografico italiano: la dipendenza fisiologica dal sostegno pubblico, la scala ridotta delle imprese di produzione, il ruolo molteplice degli operatori televisivi sempre più coinvolti nella produzione e distribuzione dei contenuti, la frammentazione dell’esercizio tra le catene di multiplex e il tessuto vivo, insostituibile ma vulnerabile, di sale piccole e indipendenti.
Il sistema italiano si è trovato in crisi come tutti gli altri sistemi nazionali, con le specificità di un settore dall’estensione pienamente globale – per la circolazione dei contenuti e dei talenti, per la pervasività dei marchi e delle tecnologie – e insieme fortemente ancorato a una dimensione nazionale – per le politiche di regolamentazione e di sostegno. L’intervento pubblico in soccorso dell’industria del cinema è stato invocato e ottenuto anche al di fuori del nostro Paese: negli Stati Uniti di Trump (non esattamente la patria dell’assistenzialismo culturale) il governo federale ha stanziato forgivable loans, cioè finanziamenti a fondo perduto, per oltre 8 miliardi di dollari, destinati ai settori produttivi coinvolti nell’intrattenimento, tempo libero ed editoria; in Francia lo Stato e il Cnc (Centre national du cinéma) hanno attuato misure per tutelare i lavoratori della filiera, e anche agenzie europee come la European Film Promotion si sono mosse in questo senso. Il caso italiano però, citando Nanni Moretti, è uguale agli altri, ma diverso. Uguale per i motivi detti, diverso perché quei punti di debolezza sono endemici e riguardano a cascata tutti i settori.
Al livello alto, quello propriamente industriale della produzione e distribuzione, la crisi ha accentuato le diversità di interessi tra soggetti di dimensioni, finalità e solidità differenti: da qui la dura querelle tra Anica e Piccolo America sul mancato noleggio di titoli per le proiezioni gratuite (che incrocia uno dei caratteri storicamente più curiosi della nostra industria cinematografica: la sovrapposizione di esercizio e distribuzione locale), sfociata in un pronunciamento dell’Agcm; le rivendicazioni e accuse di pratiche scorrette mosse ai distributori nazionali da esercenti e distributori indipendenti, sostenuti da critici e operatori del settore, in una lettera aperta; o le richieste al governo di misure emergenziali, come la destinazione di una parte dei proventi generati dalla vendita dei film attraverso servizi Tvod, quelli che consentono l’acquisto dei singoli titoli, al sostegno del piccolo esercizio (cosa in effetti avvenuta, come vedremo, grazie all’iniziativa di soggetti privati). Cambiando decisamente la scala dei soggetti, è interessante vedere come le settimane più critiche del lockdown siano coincise, almeno dal punto di vista temporale, con una sorta di riposizionamento nazionale di Netflix. Prima il finanziamento di un fondo di sostegno per i lavoratori del settore, istituito con Italian Film Commission, poi l’ingresso in Anica, l’associazione italiana degli industriali del cinema e dell’audiovisivo, e infine l’arruolamento di Eleonora Andreatta come responsabile delle serie originali italiane: iniziative, certo, le cui conseguenze dovranno essere valutate in futuro, ma anche segnali di un cambiamento per Netflix, che da marchio globale dello streaming, radicalmente alternativo al vecchio status quo della tv lineare, ha ridefinito il proprio ruolo come insider organicamente legato al contesto italiano. In mezzo a questi sconvolgimenti i professionisti del settore si trovano in una condizione di incertezza senza precedenti, in cui tutto il processo di realizzazione richiede di essere ripensato, dalle norme che disciplinano il funzionamento del set alle abitudini che regolano il lavoro collettivo della scrittura. Infine c’è lo spazio della sala, terminale logico e simbolico di questo processo, ed è lì che tutti questi nodi acquistano visibilità.
In Italia come negli altri Paesi, l’emergenza sanitaria ci ha ricordato quanto l’esperienza del cinema sia anche, e forse soprattutto, una questione di spazi. Nel panorama già molteplice e spesso confuso dei media divenuti digitali, la relazione tra il film e il luogo di visione, in senso ampio, era cruciale e ancora di più lo è diventata in questi mesi. Con le sale e i multiplex chiusi, la spinta quasi immediata è stata – come per molte altre realtà della cultura e dello spettacolo – nel trasferire la visione online, ricorrendo alle piattaforme digitali già presenti o creandone di nuove. Si possono individuare tre strade principali. Da un lato, lo sdoganamento (definitivo?) del percorso già avviato dai servizi on demand globali come Netflix e Amazon, che li ha resi, per alcuni titoli, la “prima finestra”, lo spazio dell’esordio, saltando la sala: molti film già in cartellone sono usciti direttamente sulle piattaforme, rendendo possibile l’acquisto del singolo titolo, inserendoli nella library per cui si paga l’abbonamento o – come fatto da Rai Play con un buon numero di pellicole prodotte da Rai Cinema – consentendo la visione gratuita. È una soluzione di emergenza, che si inserisce in un processo ampio e lo valida. Ma è anche un chiaro eccesso di offerta, che annega i titoli più deboli nel mare magnum dei cataloghi e rende impossibile, anche per quelli più forti, disporre di metriche affidabili del successo. Da un altro lato, seconda strada, specie nel lockdown l’esplosione dello streaming ha riguardato pure i contenuti filmici, dai live di attori e registi allo sbarco digitale di archivi e cineteche: all’abbondanza incontrollata, si aggiunge un passo ulteriore verso la gratuità dei contenuti creativi. Da un altro lato ancora, infine, si sono tentate forme di mediazione tra piattaforme digitali e sala, creando “cinema virtuali” dove concentrare la visione soprattutto d’essai, con distributori, istituzioni e gruppi di esercenti rivolti al “loro” pubblico: è il caso di miocinema.it, progetto tra gli altri di Andrea Occhipinti e Lucky Red, o di #iorestoinsala, capofila la Cineteca di Bologna; nei due casi l’infrastruttura è di mymovies.it, impacchettata in modi differenti. Lo sforzo è ammirevole, i fini di sostegno nella chiusura abbastanza nobili, ma l’impressione è anche di una soluzione subottimale, utile nell’emergenza ma comunque deficitaria, tra l’inutile ricalco delle poltrone nelle sale virtuali, le chat che invece di fare da spazi di commento en sortant du cinema diventano supporto tecnico, i problemi di user experience. In fondo, per molti ambiti, sono stati mesi all’insegna del “facciamo finta che”, ma se tale approccio all’inizio tiene poi non può diventare regola… Solo chi ha saputo “costruire percorsi, […] corredare di informazioni, offrire materiali e approfondimenti”, ha scritto Roy Menarini, si distingue, come molti festival: ma spesso questo è solo per chi è già convinto.
E le sale, luogo principe dell’esperienza cinematografica? Alcune hanno collaborato con le piattaforme, altre le hanno combattute: “non vogliamo negare a nessuno la visione di un’opera, ma non pensiate che aderire a una sala virtuale sostenga il nostro lavoro! […] Non è il momento di accettare che pochi rimodellino un sistema cinema dove non abbiamo avuto voce in capitolo […]. Volete aiutarci e sostenerci? Vi chiediamo solo di aspettarci. Noi torneremo. Noi siamo una comunità”, come affisso in bacheca dal cinema Galliera di Bologna. Anche una volta riaperti gli spazi, proseguono le difficoltà: il distanziamento e la mascherina sono quanto di più lontano dalla sospensione di incredulità importante per apprezzare un film; la programmazione è ridotta e si limita a quello che c’era da prima del lockdown e a quanto è già uscito online, nel combinato disposto della bassa stagione estiva e del blocco delle uscite. Chi ha riaperto a metà, chi ha deciso di aspettare ancora. Tra il digitale confuso e la sala dimezzata, una mediazione possibile sta in un terzo luogo: la piazza, con arene estive, festival e rassegne che mai come quest’anno sono la benvenuta riappropriazione degli spazi, e degli schermi. Ma può davvero funzionare un cinema ridotto alla sola funzione di evento? E cosa succede quando finirà l’estate? Per la ripartenza, quella vera, solo un ripensamento del sistema potrà evitare che i mali endemici e le conseguenze della pandemia si sommino. Frase che vale probabilmente in generale per l’Italia, e di certo per il suo cinema.
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