La sottile linea nera. Lo scorso 21 luglio la Chiesa cattolica cilena – rappresentata dall’Arcivescovo di Santiago, Francisco Javier Errázuriz Ossa, e dal portavoce della Conferenza episcopale – ha avanzato al presidente Sebastian Piñera la proposta per un indulto generale in vista della commemorazione del bicentenario dell’indipendenza, che si celebrerà il prossimo settembre. La proposta includeva la concessione di benefici carcerari o della libertà anticipata ai prigionieri ultrasettantenni, ai malati terminali e alle madri con figli minorenni. Il punto cruciale – sul quale si è concentrato il dibattito pubblico – riguarda però il paragrafo specifico che i prelati hanno dedicato ai detenuti condannati per crimini contro i diritti umani, perpetrati durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). In un Paese che nel 1973 contava dieci milioni di abitanti, le cifre ufficiali parlano di circa 3.000 morti, 1.200 desaparecidos e 30.000 torturati, anche se è opinione diffusa che questi dati siano incompleti e inferiori ai numeri reali. Per molte vittime i processi sono ancora aperti e l’identificazione dei resti ancora in corso: secondo la stampa cilena, dei circa 200 militari condannati per “violazione dei diritti umani” solo una cinquantina si trova effettivamente in carcere, mentre gli altri sarebbero già morti o avrebbero già scontato la pena. L’eventuale applicazione dell’indulto proposto dall’episcopato permetterebbe la scarcerazione di circa quaranta ex militari.
Le reazioni a questa proposta non si sono fatte attendere. Mentre i prelati si riunivano con il presidente, la Agrupación de familiares de detenidos desparecidos manifestava all’ingresso del palazzo presidenziale contro una iniziativa che calpesta i diritti delle vittime della dittatura (compresi numerosi sacerdoti) e delle loro famiglie. “Hanno commesso un errore molto grave” – ha dichiarato la presidentessa dell’associazione, Lorena Pizarro, riferendosi all’episcopato – “perché non c’è un atto più misericordioso e più umano che quello di assicurare alle generazioni future il rispetto della vita e dei diritti umani”. Sul fronte opposto una dichiarazione congiunta del Corpo dei generali e ammiragli e del Corpo dei carabinieri elogiava l’iniziativa “non solo come un gesto umanitario, ma anche come una necessità assoluta per raggiungere l’anelata riconciliazione e unità nazionale”. L’opinione pubblica si è schierata maggioritariamente contro il rifiuto della proposta. Vari rappresentanti della Concertación – la coalizione di centro-sinistra che ha governato il Paese tra il 1990 e il gennaio 2010 – hanno espresso un fermo disaccordo contro un indulto accusato di violare i trattati internazionali di tutela dei diritti umani ratificati dal Cile. E questo nonostante in vent’anni di governo non siano riusciti a revocare la legge di amnistia dettata da Pinochet, che tuttora – e in contraddizione con quegli stessi trattati – permette ai tribunali di amnistiare i crimini commessi da agenti dello Stato tra il 1973 e il 1978. D’altra parte, anche vari rappresentanti de la Alianza – coalizione di centro-destra al governo da gennaio e che conta al suo interno un partito geneticamente erede del pinochetismo come l’Unione democratica indipendente – si sono pronunciati contro una iniziativa che, invece di propiziare la riconciliazione nazionale, rischia di riaprire le divisioni del passato.
Tra tutte queste pressioni, il presidente Piñera, domenica 25 luglio, ha finalmente emesso il proprio verdetto affermando che “nelle circostanze attuali, non è prudente né conveniente promuovere la concessione di un indulto di carattere generale”. Secondo fonti vicine all’esecutivo, la decisione si deve all’alto costo politico che l’indulto avrebbe significato per il governo, sul fronte sia interno che internazionale. Insomma, come ha commentato un deputato del Partido socialista, Piñera è riuscito ad andare d’accordo sia con Dio che con il diavolo, confermando lo stile di “ingegneria della riconciliazione” che aveva caratterizzato anche i suoi predecessori.
Riproduzione riservata