Gli ultimi giorni di una dinastia. Quest’anno coincide con il quattrocentesimo anniversario della casa imperiale russa dei Romanov. Con la morte di Dmitrij, figlio di Ivan IV (noto come «il Terribile»), avvenuta nel 1591, si estinse la precedente dinastia dei Rjurikidi, di nobili origini scandinave, che aveva dato alla Russia grandi principi, ma mai un imperatore. Dopo un ventennio di torbidi, nel 1613 l’Assemblea delle famiglie aristocratiche (lo Zemskij Sobor) elesse imperatore Michail Romanov, dando origine a quella che sarebbe divenuta una delle più importanti famiglie regnanti della storia. Cento anni fa, in occasione del trecentesimo anniversario, l’Italia inviò una sua delegazione in Russia per omaggiare lo zar e la sua famiglia; il resoconto di quella visita, scritto in russo da G. Rummel, fu tradotto in italiano da Valerio Narducci (La delegazione italiana in Russia: Maggio-Giugno 1913), un poeta che da anni viveva a San Pietroburgo e che era tra gli animatori della piccola ma molto attiva e stimata comunità italiana della capitale.
Oggi, invece, la circostanza sta passando abbastanza in sordina nella Russia putiniana. Non mancano, ovviamente, i convegni sul tema, ma sono troppo pochi rispetto all’importanza dell’argomento; allo stesso modo, sui giornali se ne parla meno di quanto ci si possa attendere (e parallelamente non mi sembra ci sia qui da noi un gran discutere intorno alla questione). Forse perché ricordare i Romanov significa, inevitabilmente, imbattersi nella figura melodrammatica dell’ultimo zar Nicola II (oggi santo) e la fine tragica del suo regno: il bolscevismo, la guerra civile, il terrore rosso, i gulag – una memoria che il regime attuale non ama.
Oggi, invece, il quattrocentesimo anniversario della casa imperiale russa dei Romanov sta passando abbastanza in sordina nella Russia putiniana
E pensare che uno dei primi simboli del terrore rosso, la Fortezza di Pietro e Paolo, ha accolto per decenni i milioni di turisti che hanno visitato la «Palmira del Nord». Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, infatti, la prigione del bastione Trubeckoj della Fortezza divenne luogo di segregazione per i nemici del popolo: ministri del governo provvisorio di Kerenskij, partecipanti della «rivolta degli Junker», membri della disciolta Costituente, reduci dell’insurrezione di Kronshtadt e rappresentanti della ex casa regnante. Inoltre, durante la guerra civile la zona intorno alla Fortezza fu usata come poligono per le esecuzioni capitali. Di fronte ai bastioni vennero messi a morte centinaia di ostaggi, tra cui tre principi Romanov.
Il 6 settembre 1918 il giornale «Severnaja Komuna» (la Comune del Nord) pubblicò un lungo elenco di prigionieri della fortezza. I primi nomi erano quelli dei gran principi Dmitrij Konstantinovich, Nikolaj Michailovich, Georgij Michailovich, Pavel Aleksandrovich. Il 31 gennaio 1919, quindi, la «Petrogradskaja Pravda» (la Pravda di Pietrogrado) annunciò la loro avvenuta fucilazione: senza una data, una sentenza o un luogo. Si disse che fu una vendetta per l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, avvenuta a Berlino pochi giorni prima. E si diffuse inoltre la voce, poi sostenuta da conferme documentali, che il maggiore scrittore russo, Maksim Gor’kij, avesse perorato di fronte a Lenin la causa di quei nobili, tutti studiosi di fama internazionale in diversi campi del sapere. È accertato che Gor’kij seppe dell’avvenuta fucilazione alla stazione di Mosca, dove stava per prendere il treno per l’ex capitale imperiale, mentre non si è sicuri del fatto che fosse riuscito a ottenere da Lenin un decreto di grazia. Se ciò accadde, a Pietrogrado si sbrigarono a ignorare la cosa. E questa non fu l’unica volta.
Il 31 gennaio 1919, la “Petrogradskaja Pravda” (la Pravda di Pietrogrado) annunciò l'avvenuta fucilazione di un lungo elenco di prigionieri della fortezza: senza una data, una sentenza o un luogo
Nel 1921, solo due anni più tardi, il poeta Aleksandr Blok ebbe urgente bisogno di cure mediche in Finlandia, ma le autorità pietrogradesi gli negarono il visto. Ancora una volta Gor’kij si recò a Mosca a protestare con Lenin, ma quando ottenne finalmente il permesso d’espatrio, apprese che il poeta era morto. «La ghigliottina pensante»: così Gor’kij definì Lenin dopo quella volta. E anche per questo prese la strada dell’esilio volontario nell’Italia fascista.
Solo con la perestrojka, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, nei pressi del Bastione Golovkin cominciarono i primi scavi che portarono alla luce le fosse comuni del periodo 1917 - 1920. Gli scavi sono però andati avanti a singhiozzo, sia per mancanza di fondi, sia per scarsa volontà o per opportunità politica, e ancora oggi non possono dirsi conclusi. Sappiamo con certezza, comunque, che tra i resti umani tornati alla luce si trovano anche quelli dei principi, fucilati nel gennaio 1919.
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