IN MEMORIA DI PAOLO SYLOS LABINI

Il mio commento prende spunto dalla prima tavola del decalogo in cui Marcella Corsi ha riassunto le principali convinzioni che Paolo Sylos Labini nutriva circa la sua professione/vocazione: «Etica ed economia non possono essere mai scisse». Esso non affronta i problemi metodologici che un’asserzione così perentoria solleva. Le asserzioni relative al metodo della ricerca sono spesso ingannevoli, hanno un apparente aspetto prescrittivo, ma dovrebbero essere ricondotte sotto le categorie di «vero o falso», o quanto meno di «scientificamente opportuno o inopportuno». Mi limito qui a ricordare che Max Weber riteneva quella «scissione» difficile, ma possibile e opportuna, e ha dedicato molti sforzi a tracciarla; che la distinzione tra l’economia come scienza e la prescrizione politica in materie economiche è stato uno degli obiettivi metodologici di fondo di Vilfredo Pareto; che, dopo di allora, sull’argomento sono state scritte biblioteche. Insomma, fior di economisti, scienziati sociali e filosofi della scienza sarebbero in disaccordo con Sylos.

D’ora innanzi, nulla di tutto questo. La prima tavola del decalogo di Sylos – e soprattutto il riferimento che fa Marcella Corsi a una citazione rivelatrice di Gaetano Salvemini, il maestro del nostro maestro – è solo il pretesto per un discorso che ha a che fare con i dilemmi della scelta politica, non con le strategie della ricerca scientifica. Au fond, in modo più tortuoso e indiretto che negli altri bei ricordi ascoltati nel convegno, anche il mio commento esprime una commemorazione, l’intensità di un’influenza, le ragioni di un dissenso. Rileggiamo la citazione.

Quei vecchi maestri appartenevano tutti a quella corrente di pensiero che oggi è disprezzata come positivista, illuminista, intellettualista. La loro e la nostra cultura era anzichenò angusta, arida, terra terra, inetta ad elevarsi verso i cieli dell’intuizionismo e dell’idealismo. Ai tempi di quella cultura terra terra, noi ci classificavamo nettamente in credenti e non credenti, clericali o anticlericali, conservatori o rivoluzionari, monarchici o repubblicani, individualisti o socialisti. Il bianco era bianco e il nero era nero. Il bene era bene e il male era male. O di qua, o di là. Quando noi poveri passerotti empirici fummo divorati dalle aquile idealiste, il bianco diventò mezzo nero e il nero mezzo bianco, il bene mezzo male e il male mezzo bene, il briccone non poteva non essere mezzo galantuomo e il galantuomo era condannato ad essere mezzo briccone. Oggi in Italia i clericali sono mezzo comunisti e i comunisti mezzo clericali…

 

La citazione riceve il consenso entusiastico di Sylos («sono pagine degne di Socrate») e anche a me sembra letterariamente molto efficace dal punto di vista letterario. Ma subito mi è apparsa molto ingenua – come se fosse facile nelle vicende umane distinguere così nettamente il nero dal bianco, il bene dal male. E un poco irritante in quell’ingiunzione a schierarsi, «o di qua o di là», cosa che è necessaria solo in casi estremi, per fortuna nostra.

La frase di Salvemini si presta dunque assai bene a un commento che metta in luce alcune differenze tra il modo di pensare di Paolo Sylos e il mio. Per queste differenze avendo sofferto non poco – negli ultimi suoi anni Sylos ha criticato in modo severo alcune mie scelte – mi sembra giunto il momento di trattarne in modo distaccato: non come uno sfogo catartico di interesse solo personale, ma come una riflessione d’indole generale sull’ Ideologia italiana, come l’avrebbero definita Engels e Marx. Per procedere distinguo tre piani di analisi. Il primo riguarda la storia delle idee tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: perché i passerotti positivisti furono divorati dalle aquile ide- aliste, come dice Salvemini. Il secondo riguarda la sostanza del problema: la possibilità di distinguere nettamente il bene dal male e il vero dal falso; dun- que come comportarsi quando questa netta distinzione è difficile. Il terzo riguarda le predisposizioni a indignarsi e impegnarsi – quando le cose vanno male – ovvero a subire o addirittura accondiscendere. È in gioco il carattere individuale, anzitutto. Ma anche il «carattere nazionale».

 

[L'articolo completo, uscito nel numero 6/2006 del "Mulino", è acquistabile qui]