La politica in Italia oggi non gode di grande reputazione presso i cittadini, in particolare tra i giovani.
Pur essendo cresciuto l’impegno pubblico in molte attività che si stenta a non definire “politiche”, come partecipare a manifestazioni, firmare appelli e petizioni, dar vita ad appassionati dibattiti su internet contro la corruzione e la cosiddetta “casta”, si è passati dalla critica ai partiti a una sorta di ripulsa della politica e dei politici tout court. Aumenta, cioè, la voglia di far sentire la propria voce nella sfera pubblica, senza che ciò si traduca nell’aspirazione a influire sulla ripartizione del potere nell’ambito dello Stato.
La politica viene frequentemente intesa come il mestiere di chi un “vero” mestiere non ha, un’attività strumentale all’acquisizione privata di risorse (denaro, prestigio, potere): in altri termini una scorciatoia per ottenere privilegi per sé e/o per il proprio gruppo di interesse. Sembra essere caduta anche quella distinzione semantica tra “politica partitica” (cattiva) e “politica diffusa”, intesa come scelta quotidiana di trasformazione di sé e della realtà (buona), che aveva caratterizzato il mondo giovanile dopo l’esaurimento dei movimenti di protesta degli anni Settanta.
Il “vivere di politica” che Weber vedeva come un modo di rendere la politica una professione (ma non alternativo a quello di chi, vivendo “per” la politica, serve una causa e dà senso alla propria vita) è oggi sempre più spesso inteso in modo spregiativo, come stile di vita amorale se non immorale, basato sull’incompetenza e sulla sottomissione a vari padroni. Questo disprezzo è così diffuso e temuto che i politici fanno a gara a inserire nelle liste la “società civile”, che dovrebbe essere più attraente per un elettorato deluso e incattivito nei confronti del malgoverno e della corruzione politica.
Ma prima di “scendere” in politica, i Fiorito, i Belsito, le Rosi Mauro ecc. che cos’erano? Non venivano anche loro dalla “società civile”, in quanto settore intermedio tra il privato e lo Stato ? Il vero problema non è tanto la provenienza dalla “società civile” o dalla “società politica”, ma quello di avere criteri e scuole di formazione per selezionare personale affidabile e preparato.
Quella che con toni spesso retorici ed enfatici viene definita “antipolitica”, parola vaga per indicare ogni tipo di rifiuto della politica, è il frutto avvelenato di un sistema politico democratico che non ha saputo rinnovare se stesso e modernizzare la società e la cultura del Paese. L’antipolitica, infatti, trae alimento dalla sensazione di essere “presi in giro” da promesse non rispettate a fronte di un costante peggioramento della situazione complessiva del Paese e della difesa ad oltranza di un ceto politico trasversale oligarchico e di fatto intoccabile. Esistono settori semplicemente delusi nelle aspettative di cambiamento, forse troppo elevate, e nell’idea di democrazia, forse troppo esigente. Altrimenti non si spiegherebbe perché la sfiducia nelle istituzioni politiche sia diffusa anche tra i giovani più impegnati e più istruiti.
La delusione è un sentimento ambiguo che può portare all’apatia, al ripiegamento privato, o anche ad atteggiamenti di denuncia indignata, tanto più aggressiva e indifferenziata quanto maggiori erano le aspettative ed elevati gli ideali.
Su questa parte di italiani, che non si può né ignorare né sottovalutare, non si fa breccia con i soliti stereotipi, o con discorsi elettorali che parlano quasi esclusivamente in termini di posizionamenti e di gradazioni, significativi più in campo musicale (come il termine “moderato”) che politico. Si può sperare di convincerli con argomentazioni rigorose che tocchino temi rilevanti per la società, proposte concrete su come risolvere problemi incancreniti ed endemici (l’inefficienza della pubblica amministrazione, la corruzione politica, l’evasione fiscale, le carenze di innovazione e ricerca, la valorizzazione dei beni pubblici, il livello esorbitante di tassazione, la lentezza della giustizia civile, l’ingarbugliata matassa dei conflitti di competenza tra enti dello Stato, la superfetazione legislativa…). In una parola, fornendo un disegno coerente e fattibile di un’Italia migliore, profondamente trasformata.
Un passo simbolico interessante è stato fatto da Monti, quando ha usato la felice espressione (la cui paternità è in realtà stata rivendicata da Saviano) “salire in politica”, intendendo con ciò rivendicare una concezione alta, non strumentale e non particolaristica della politica. “Scendere” in politica, tuttavia, ha anche un significato nobile dimenticato. Esso richiama la discesa nell’agone politico, quell’arena gladiatoria dove si combatte non con la spada, ma con le idee e le proposte. Bisognerebbe quindi essere capaci di “salire” a livelli superiori al degrado intellettuale (e morale) attuale per “scendere” nell’arena pubblica a convincere con la forza delle idee che la propria visione politica è quella adatta a riformare l’Italia. Le qualità decisive dell’uomo e della donna che aspirino a partecipare al potere, a salire in politica per combattere per le proprie idee, sono ancora quelle individuate da Max Weber nel 1918: “passione, senso di responsabilità, lungimiranza”.
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