All’inizio del mese di maggio mi è stato chiesto di tenere una lezione presso un ateneo milanese. Come spesso accade, ho adoperato materiali tratti dalla letteratura, dalla saggistica, dall’arte, dal cinema, dalla musica. Mi sono ritrovato a navigare in un mare di sguardi perplessi. Non c’era alcun terreno comune o patrimonio simbolico condiviso. Mi sono rifugiato nelle serie televisive, unico universo comune, unico spazio di confronto (e conforto) per muoversi in sintonia. Insomma, se questi ventenni non avevano alcuna idea di chi fosse Jonathan Franzen, sapevano bene che cosa raccontava True Detective, la serie Hbo caratterizzata da una complessità narrativa tranquillamente assimilabile alla letteratura americana contemporanea.
Sono passati venticinque anni dalla pubblicazione del romanzo di Antonio Tabucchi Sostiene Pereira. All’epoca il romanzo fu accusato di essere un’operazione elettorale di un intellettuale schierato, che fino alla sua morte ha sempre fatto del suo lavoro un’impresa culturalmente militante. In quei mesi uscì un’intervista nella quale Tabucchi sosteneva che «immedesimarsi in un personaggio diverso dal nostro culturalmente, ideologicamente, letterariamente, economicamente sia un fatto anche politico».
I due riferimenti ben ci introducono a una riflessione sulla serialità televisiva e sulla sua capacità di influenzare le opinioni pubbliche. Seguire fedelmente, perché è questo che accade, una serie tv rappresenta certamente un momento centrale del processo di selezione e costruzione delle opinioni in quella fetta di società che ha accesso (ed è sempre maggiore) alle varie piattaforme di streaming che offrono video on demand. Sono pratiche apparentemente distanti da quelle solitamente incluse nella costruzione del clima d’opinione; tuttavia, si tratta di pratiche sempre più importanti per comprendere il mondo, perché costruiscono immedesimazione (quindi costruzione identitaria), ma anche relazione: delle serie si parla con quelli con cui si vedono (se si vedono con qualcuno), con i parenti, gli amici, al lavoro, al bar e ora sempre di più sui social, cioè in quei luoghi dove avviene la discussione pubblica.
[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 4/19, pp. 590-595, è acquistabile qui]
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