L’emergenza sta cambiando insieme alle nostre abitudini di vita le tecniche di comando dei Governi e delle amministrazioni pubbliche. Per questo può ritenersi pienamente giustificabile che un Governo come il nostro per affrontare una situazione eccezionale quale quella determinata dalla pandemia usi il ricorso a strumenti eccezionali quali sono i Decreti-legge e i Decreti del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm) strumenti che peraltro trovano la loro legittimazione sia nella Costituzione (come i Decreti legge) sia nella legge ordinaria (come i Dpcm).
Tutto questo risponde a un “diritto dell’emergenza” che di per sé non mette a rischio né l’impianto costituzionale né il sistema delle nostre libertà, ma a una condizione precisa: che lo strumento eccezionale sia utilizzato solo per una sospensione temporanea della regola e cioè con misura, equilibrio e proporzionalità rispetto alla emergenza che si deve affrontare.
Si può dire che questo principio sia stato puntualmente rispettato con riferimento alla ventina di Decreti legge e Dpcm che il nostro Governo ha adottato a partire dall’inizio della pandemia nell’arco degli ultimi nove mesi?
I dubbi nascono in relazione a due aspetti su cui, senza indulgere in critiche radicali, è giusto richiamare l’attenzione di chi oggi, in una congiuntura particolarmente complessa, si trova a svolgere il difficile compito di tenere in mano il timore del Paese.
Il primo aspetto riguarda il rigore con cui occorre impegnarsi nel rispetto dei confini costituzionali quando si usano strumenti eccezionali. Questo vale in particolare con riferimento alle libertà di circolazione, di riunione e di iniziativa economica che le esigenze di contenimento della pandemia vengono a mettere in gioco. In base alla nostra costituzione queste libertà fondamentali possono subire limitazioni in via eccezionale, ma solo per volontà della legge o di una fonte normativa dotata di forza equivalente alla legge e sottoposta al controllo parlamentare come è, nel nostro sistema, il decreto-legge.
I Dpcm non sono fonti primarie equivalenti alla legge, ma secondarie di natura regolamentare e per imporre limiti a una libertà fondamentale devono trovare una piena copertura rispetto ai contenuti espressi in una legge o in un’altra fonte primaria (quale è il Decreto legge). Questo rappresenta un principio dello “Stato di diritto” di cui disponiamo che in questi mesi tormentati non sempre è stato rispettato con il dovuto scrupolo. La conseguenza è stata che i Dpcm ripetutamente adottati sotto la spinta dell’emergenza hanno spesso sfiorato e talvolta scavalcato il confine costituzionale mettendo a rischio la garanzia di base delle nostre libertà rappresentata dalla “riserva di legge”.
Il secondo aspetto riguarda il rischio della bulimia normativa in cui stiamo scivolando per l’uso smodato di questi strumenti eccezionali che, proprio per la loro eccezionalità, andrebbero usati con particolare parsimonia. Tre Dpcm varati da ultimo nello spazio di dodici giorni e composti da centinaia di norme con complessi allegati che investono le materie più diverse sono decisamente troppi e rischiano di essere controproducenti tanto più se si pensa alla loro efficacia limitata nel tempo. Mi chiedo, infatti, come gli operatori cui spetta il compito di applicare questo diluvio normativo (si tratti di un rappresentante delle forze dell’ordine o del preside di una scuola) possano affrontare il compito di leggere, interpretare e orientarsi in questa complessa (e spesso oscura) selva di norme.
Il rischio della bulimia normativa (malattia ereditaria della nostra amministrazione) è quello di ricalcare l’esperienza delle “grida” manzoniane che cercavano di fermare la peste con ordini che nessuno era poi in grado di rispettare.
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