Quella dell’Ilva di Taranto è una storia italiana. Ha tanti degli ingredienti che ritroviamo nello sviluppo del nostro Paese, nel bene e nel male. Ma è anche una cartina al tornasole: per verificare se e quanto avremo la capacità di disegnare, un po’ alla volta, uno sviluppo diverso.
L’Ilva è un pezzo importante del nostro sistema manifatturiero. Ha una dimensione rilevantissima sull’economia locale, ma anche un ruolo decisivo a scala nazionale: per le forniture alle industrie a valle, per il saldo della nostra bilancia commerciale. È frutto della storia, per molti versi positiva, della nostra grande rincorsa industriale: dal Piano Sinigaglia alla siderurgia pubblica, al grande costante aumento della produzione negli anni del boom fino alla storica decisione di creare il Quarto Centro Siderurgico a Taranto e poi di raddoppiarlo. Nonostante tutte le difficoltà del quadro internazionale (fra nuovi produttori e nuovi materiali) e la crisi irreversibile dell’impresa pubblica, uno stabilimento che è rimasto competitivo, efficiente.
Allo stesso tempo, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’Ilva ha un impatto devastante sull’ambiente, moltiplicato dalle enormi dimensioni dello stabilimento. Ha condizionato negativamente tutta l’area di Taranto, con un inquinamento persistente e rilevante. Ha avuto effetti drammatici sulla salute dei lavoratori e dei cittadini. Per quanto sia difficile stabilire nessi di causa ed effetto, appare ragionevolmente provato che le conseguenze della produzione sono gravi, anche molto gravi, sulla salute dei tarantini. Le indagini della magistratura hanno poi scoperchiato un sistema di potere e di controllo dell’opinione pubblica molto preoccupante; la proprietà ha investito assai meno di quel che avrebbe dovuto, ma allo stesso tempo ha cercato di condizionare fortemente la comunicazione, di contrastare i controlli. La circostanza che i Riva fossero tra i “capitani coraggiosi” che hanno investito nella nuova Alitalia (si veda a riguardo il bel libro di Gianni Dragoni) alimenta i dubbi su oscuri rapporti di dare e avere fra pezzi rilevanti della nostra classe imprenditoriale e il potere politico. Al di là dell’azione positiva – ma limitata da poteri e competenze - dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa) della Puglia, la vicenda ha svelato una drammatica fuga negli anni scorsi del governo nazionale dalle sue responsabilità.
C’è voluta l’azione della magistratura – di supplenza all’assenza della politica nazionale – per svelare che il re è nudo. A Taranto si è creato un conflitto radicale fra produzione industriale e tutela dell’ambiente e della salute. Un conflitto che non può avere vincitori: se una delle due esigenze prevalesse a danno dell’altro, sarebbe una sconfitta complessiva per l’Italia. Saremmo un Paese avanzato che non riesce a conciliare lavoro e salute; che non riesce a regolare le attività economiche in modo tale da non creare esternalità profondamente negative; che non riesce a salvaguardare i suoi cittadini senza penalizzare i lavoratori. Una sfida estremamente complicata sotto il profilo tecnico, e molto impegnativa sotto quello economico, per il pubblico e per il privato. Ma soprattutto una sfida per le nostre ambizioni: pensare Taranto non come il luogo esemplare degli errori del passato; ma come il simbolo della capacità di correggerli.
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