Un Paese ingovernabile. Domani 11 maggio il Senato federale si esprimerà sulla messa in stato di accusa del presidente brasiliano, Dilma Rousseff. Dopo che ieri il presidente ad interim della Camera dei deputati aveva cercato di impedire il processo di impeachment, oggi tutto è tornato a seguire il calendario stabilito già da tempo. Al Senato, ora, tutto sembra far pensare che prevarrà il sì: Dilma, se così fosse, sarebbe costretta ad allontanarsi dalla presidenza e il potere esecutivo passerebbe nelle mani del suo vice, Michel Temer, per 180 giorni; in caso contrario, tutto rimarrebbe come le elezioni del 2014 avevano stabilito. Considerato lo scenario più probabile, la corsa al toto-ministri è già partita. Sarà questa la panacea per la crisi della politica, a cui hanno dato voce le proteste esplose in coincidenza con la Confederation Cup del 2013? Molto probabilmente no. Lo iato creatosi tra la società e il mondo politico si allarga, piuttosto che restringersi.
Promossa da alcuni ex alleati della presidenta (tra i quali lo stesso vicepresidente) e dall’opposizione tutta, l’accusa ha seguito l’iter stabilito dalla Carta costituzionale. A Dilma viene imputata la falsificazione dei bilanci pubblici: Rousseff, in altre parole, non avrebbe messo a bilancio un debito di 15 milioni di dollari. L’accusa di impeachment ha preso corpo tre settimane fa, quando la Camera dei deputati, dopo una lunghissima sessione, ha approvato il provvedimento. Durante la votazione, ogni deputato ha avuto l’opportunità di comunicare le sue ragioni e i suoi argomenti a sostegno del proprio voto. Il che ha portato a una eccessiva sovramediatizzazione del processo.
Guardata poi in una prospettiva storica, la vicenda dell’impeachment ha mostrato l’immagine di un Paese ingovernabile a causa dell’eccessiva frammentazione del sistema partitico: un’immagine, questa, ben radicata nella memoria dei brasiliani. L’endemico moltiplicarsi dei partiti politici presenti in Parlamento, in realtà, sembrava essere rallentato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso e fino alle scorse elezioni presidenziali, nel 2014. Nelle elezioni del 1994, di fatto, i primi cinque partiti (quelli che avevano superato il 10% dei consensi alle elezioni presidenziali e parlamentari) raccoglievano quasi il 70% dei suffragi. Il consenso intorno a questi movimenti nel corso degli anni si era andato consolidando, diminuendo invece quello raccolto dai partiti minori.
Questo, fino a quando è arrivata un’importante inversione di tendenza, appunto nel 2014: solo due liste hanno superato la soglia del 10%. Il Parlamento brasiliano, insomma, ad oggi è governato da una miriade di formazioni politiche minori. Basti pensare che, nel 1994, Fernando Henrique Cardoso era arrivato alla presidenza con il sostegno di soli due movimenti politici continuando quindi a governare, per due mandati, grazie all’appoggio di quattro gruppi parlamentari. Dilma, invece, è stata eletta nel 2014 con il sostegno di ben nove partiti politici: una coalizione fin troppo composita per affrontare una lunga crisi politica cominciata nel 2013.
L’aumento del numero dei partiti è strettamente connesso alla forte dimensione localistica della politica brasiliana. Un localismo emerso proprio nel caso della votazione alla Camera per l’impeachment, quando la gran parte dei deputati ha fondato la sua decisione sulla base del distretto che ciascuno rappresentava: alcuni, addirittura, si sono presentati alla votazione bardati dei simboli delle loro comunità di appartenenza. L’endemico multipartitismo pende, oggi più di ieri, come una spada di Damocle sulla testa della democrazia brasiliana.
E non è la sola. I casi di corruzione che coinvolgono la classe dirigente non accennano a cessare: la corruzione, anzi, attraversa il mondo politico a tutti i livelli, in lungo e in largo, senza distinzioni partitiche. È notizia di qualche giorno fa la prima destituzione di un deputato per mano del Tribunale supremo. Non si tratta di un deputato qualsiasi, ma del presidente della Camera dei deputati, Eduardo Cunha (del Partido do movimento democrático brasileiro), peraltro uno dei principali promotori dell’impeachment. Così come vi sono richieste di indagini nei riguardi di Aécio Neves (del Partido de la social democracia brasileña), senatore, che aveva sfidato Dilma al ballottaggio del 2014. Cunha, Neves e tutti i membri del governo coinvolti in casi di corruzione non fanno che aumentare il discredito della classe politica brasiliana.
Che vinca il no o vinca il sì, a partire da domani saranno queste le sfide più profonde con cui si dovrà confrontare il presidente. Che sia Dilma o, molto più probabilmente, Temer, le criticità della politica brasiliana al giorno d’oggi sono lo sgretolamento del consenso verso i grandi partiti e la crisi della politica. Il tutto accompagnato da un’economia nazionale che non cresce più ai ritmi di qualche anno fa. Un mix perfetto per il successo di eventuali fenomeni di tipo populista. Un vento, quello del populismo, che spira ancora troppo forte oggi in Brasile come in tutta l’America Latina. Il fascino della politica manichea, la gestione patrimonialista delle risorse pubbliche, la delegittimazione dell’avversario politico sono tutti elementi presenti nella vita politica brasiliana, pronti a trasformare quel forte vento in un vero e proprio ciclone.
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