Ritengo utile e conveniente indicare fin dall’inizio che mi atterrò a una definizione e ad una interpretazione molto specifiche e rigorose del termine «riformismo». Esso è sicuramente, come dice un buon vocabolario della lingua italiana, la «tendenza a modificare l’ordinamento politico-sociale attraverso organiche ma graduali riforme»; ma, nell’esperienza in atto dal XIX secolo in poi, in forza della espansione dei diritti elettorali e della avvenuta politicizzazione delle masse, questa tendenza intellettuale e morale esige anche una organizzazione del lavoro politico diretta a far perseguire obiettivi riformatori da una maggioranza di cittadini determinati ad ottenere politiche riformistiche da un governo e da un parlamento impegnati programmaticamente a questo fine e coerenti nell’azione. In questo senso, che esige azioni collettive e volontà solidali, «riformismo» è cosa ancora da pensare nella sua complessità strutturale e da realizzare, vincendo tendenze politiche diverse, le quali spregiano le riforme, giudicandole mediocri compromessi rispetto ai cambiamenti necessari, o costose illusioni rispetto alla realtà. Per questo riformisti seri e avvertiti hanno ben poco da raccontare: la «tendenza» ideale che li ispira, dopo circa duecento anni di esperienze parziali, resta tuttora da radicare e sviluppare, sia costruendo condizioni più sicure per la sua effettività, sia promuovendo progettazioni e svolgimenti concreti di più largo respiro.

Esperienze locali, specie in Europa, ne abbiamo viste dal XIX secolo, e il Welfare State ne è il prodotto più visibile e celebrato: ma forse è meno stabilizzato e garantito di quanto non si sia creduto. In ogni caso, su scala mondiale, il riformismo è minoritario quanto a consensi e gracilissimo quanto a pensieri e coerenza di propositi. In Italia, sicuramente, siamo solo agli inizi.

È con l’Ulivo che, per la prima volta in questo Paese, la bandiera del riformismo ha assunto il senso di una proposta politica globale: dall’aprile 1996 al maggio 2001, per un’intera legislatura, tre presidenti del Consiglio e quattro governi, hanno visto nel riformismo la propria più accettata caratterizzazione identitaria e, ancora oggi, è un fronte riformista che cerca di stare in campo contro l’identità concorrente, al momento in maggioranza con il nome di «Casa delle libertà»: nome abbastanza adeguato per una alleanza segnata da una direzione sostanzialmente neoliberista.

Vedo molti lettori storcere il naso di fronte ad un’impostazione che può apparire troppo immersa nelle cronache del nostro presente, per tanti aspetti ambiguo e ricco di mediocrità e di contraddizioni. Per discettare di riformismo, è proprio necessario partire di qui? Penso di sì: che, per lo meno, è utile prendere atto che, né come programma politico-elettorale, né come mito ideologico, il termine riformismo ha mai avuto, da noi, prima dei nostri pur modesti giorni, la forza di proporsi come tendenza globale, sintesi di tradizioni che, nella loro storica separatezza, si sono riconosciute progressivamente penalizzate dalle loro ideologie in frantumi, e hanno imboccato strade nuove. A un certo punto, forze politiche con storie diverse esaurite, hanno cercato, proprio in un riformismo rivisitato e riabilitato (non senza frettolosa semplificazione e comoda superficialità), una loro unità e vitalità di tipo coalizionale, ormai indispensabile, dopo la crisi del triennio ’92- 94, per competere sulla scena politica e nella vita della Repubblica.

Che l’unità dei riformisti italiani (postcomunisti, socialisti, repubblicani, cattolici democratici, ambientalisti), sia poi risultata inadeguata ad affermarsi con più durevole stabilità, sgominando la concorrenza per un ciclo di alcune legislature, ci obbliga a riconoscere che, o essa è stata pensata e rappresentata non troppo bene, o che la carta neoliberista è, in questo nostro Paese e tempo, così buona e ben giocata da riuscire a vincere: nella democrazia maggioritaria-bipolare, di fatto, due volte su tre.

Sono per la prima alternativa. Sono stati genitori e padrini dell’Ulivo, con familiari e ospiti di stagione, ad avere diminuito la qualità della invenzione originante lo stesso Ulivo, rivelando, appunto, il carattere aurorale del nostro riformismo. Il quale, con Prodi, ma anche con D’Alema e Amato, è stato sì capace di non poche cose buone e dignitose nell’esercizio del governare, ma è risultato debole di progettualità, consapevolezza organizzativa, comunicazione, e quindi di forza politica complessiva. La coalizione dei riformisti italiani, cioè l’Ulivo, è risultata ben poco «riformista», a causa del carattere opportunistico e provvisorio, strumentale e fittizio, di molte conversioni alla nuova unità coalizionale identitaria: cioè, a verità e necessità di un impegno e un programma riformistico, che fosse tale nelle politiche dei vari settori e, ancor prima e di più, nel suo assetto di proposta politica innovatrice e unificante.

Per dirla con Parisi, il progetto è stato flebile, e il soggetto debolissimo.

 

Le premesse del riformismo

Nella quotidianità politica, dal 1995-96 al 2001, i partiti che si sono detti «riformisti», ciascuno muovendo dalla sua ferita tradizione, sono risultati, ahinoi, sempre troppo forti nel ceto politico e sempre più deboli nel cuore dell’opinione pubblica. Questa asimmetria ha avvantaggiato molto Berlusconi, più netto nella sua proposta neoliberista, pur avventurosa e ricca di contraddizioni e mistificazioni.

D’altra parte, come non riconoscerlo? Il riformismo, in Italia, è storicamente debole. Dopo la fine del fascismo, i due momenti unitari più forti, quello vissuto tra Resistenza e Costituzione, e quello del primo centrosinistra, si sono costituiti per obiettivi importanti e sotto il segno di ideali significativi: ma né tra 43 e 48, né nei decenni della lunga stagione del primo centrosinistra (quasi trent’anni!), si può dire che realtà e mito del riformismo fossero matrici di quelle progettualità, e criteri dirimenti per la gestione della politica in svolgimento. Un po’ di riformismo è entrato nell’ethos e nei risultati delle due stagioni considerate, ma l’orizzonte era segnato da altre stelle polari, o da più cogenti e modeste preoccupazioni di mera sopravvivenza democratica.

Egualmente deve dirsi per le esperienze, pur così determinanti per la nostra penisola, susseguitesi nei 120 anni che vanno dall’arrivo dei francesi in Italia (prima giacobini poi bonapartisti) fino alla Grande guerra. Gesti di rottura e fasi di riforma se ne sono avuti, ma promossi da minoranze locali rivoluzionarie, e da un governo regionale, quello piemontese, espansionista e fortunato: eventi di un risorgimento e di una unificazione nazionale anche bella e significativa, ma non espressivi di un autentico riformismo politico sociale quale si avviava altrove, nell’ambito di realtà statuali e storiche più mature. Grandi idealità hanno operato nel nostro Ottocento, segnato dalle peculiarità nazionali, da influenze illuministiche, dalla problematica di un pezzo d’Italia consegnato per mille anni alla vita internazionale (e culturale) come Stato della Chiesa, dal peso di una condizione meridionale aggravatasi con la «conquista regia», e più strumentalizzata che affrontata nella fase migliore del periodo postrisorgimentale, con Giolitti.

Anche il nostro riformismo socialista, che pure ad un certo punto si è fatto vedere e valere (ma cent’anni dopo le sue origini in altri Paesi), è rimasto – fino alla marcia su Roma, alla vittoria del fascismo e alla sua sconfitta nella Seconda guerra mondiale – esperienza parziale: alla guida di parecchi comuni nel Nord, ma sempre esterno ed alieno da responsabilità di governo nello Stato: che era poi un Regno d’Italia segnato da conquista ed espansione compiute dal nostro Stato regionale meglio governato negli anni decisivi per l’unificazione nazionale; mentre l’idea di Rivoluzione sociale, e fin di uno Sciopero generale che si pensava potesse esserne prodromo, caratterizzò, a cavallo di Ottocento e Novecento, pensieri e discorsi dei socialisti, anche dei moderati, quasi sempre minoritari nel loro partito, dominato dai «massimalisti».

Ben diverso fu l’intreccio tra «tendenza» alle riforme e governo della legislazione e della società che, nello stesso periodo, si attuava in Inghilterra, il Paese più avanzato in Europa per sviluppo costituzionale e espansione del capitalismo. Già nel 1789, Bentham nella sua Introduzione ai principi di etica e legislazione, aveva aperto la via ad un liberalismo interventista e riformatore, che giustificava azioni di governo volte a massimizzare la felicità comune, subordinando a fini come sicurezza, eguaglianza, sussistenza, abbondanza, lo stesso diritto di proprietà. L’incontro di utilitarismo ed associazionismo popolare radicaleggiante, nel contesto di un’esperienza fortunata e secolare di un costituzionalismo progrediente, ha permesso all’Inghilterra di conoscere e proporre una via riformista del tutto alternativa a quella seguita dalla Francia per passare dall’Antico Regime alla modernità attraverso oscillazioni tra Rivoluzione e cesarismo imperiale: già nel 1832, il Reform Act che modifica la legge e le circoscrizioni elettorali del parlamento inglese redistribuisce il potere politico riconoscendo il peso delle nuove città industriali e degli interessi sociali emergenti, consolidando quel sistema politico bipartitico che rende naturale il processo riformistico come adeguamento costante delle istituzioni e degli obiettivi amministrativi ai cambiamenti sociali e culturali mediante l’alternanza di due partiti in competizione e secondo la pressione prevalente dell’opinione pubblica.

Stuart Mill, nel 1859 e nel 1861, con il saggio Sulla libertà e le Considerazioni sul governo rappresentativo coniuga diritti individuali e democrazia in un’idea di società rispettosa dell’eguaglianza dei diritti, prima e più che dei beni, nella quale proprio la più ampia libertà di associazione garantisce un riequilibrio di forze alle classi economicamente più deboli. Con basi dottrinarie autorevoli e largamente condivise, raccogliendo il grande lavoro dei «cartisti», intensissimo tra 1831 e 1848, ed esempi e suggestioni dell’intera vita di Robert Owen (1771-1858), il più pragmatico dei socialisti utopisti, la forte e ricca Inghilterra di Gladstone riesce, negli anni dell’età vittoriana, a realizzare una serie di riforme che vedono il Reform Bill del 1867 concludere la stagione di lotte del movimento operaio, aperta con la costituzione della Reform League nel 1865, e che nel 1871 arriva alla legalizzazione delle Trade Unions.

Si confrontino le date di queste conquiste decisive, interne alla società inglese, con gli avvenimenti coevi del Risorgimento italiano, e si formuleranno meglio valutazioni e giudizi equamente comparativi di due storie, non divergenti, ma certo non allineate e sincroniche.

 

Fra teoria e prassi riformistica

Il riformismo è una reale «tendenza» politica solo quando può e sa confrontarsi positivamente con il problema politico centrale, che è quello di proporsi di governare, in competizione – dentro una società democratica e costituzionale – con tendenze politiche diverse. Che sono poi, fondamentalmente, due: quella di chi non cerca i cambiamenti ma si compiace dell’esistente e vuole conservarlo: o di chi si aspetta i cambiamenti migliorativi possibili dalla dinamica spontanea, e quasi senza regole, delle forze sociali in conflitto. Conservatori e liberisti sono, infatti, nell’orizzonte della democrazia politica moderna, gli avversari della progettualità riformatrice. Il triangolo instabile di queste tendenze ideali dà luogo ad una dialettica complessa, in ragione delle concrete situazioni storiche, sociali, economiche, giuridiche, e delle capacità di analisi e sintesi, di comunicazione e aggregazione, dei «partiti» in competizione davanti ai cittadini elettori, per legittimarsi a governare e legiferare, secondo le scadenze e per i tempi previsti dall’ordinamento costituzionale.

Riformismo, dunque, o è un obiettivo collettivo, e quindi anche un metodo partecipato e sostenuto da cittadini così numerosi da essere o maggioranza in atto, o possibile alternativa di governo: oppure, è solo un orientamento etico, una propensione culturale di gruppi ristretti, di pensatori e studiosi: importante, forse anche influente nei tempi lunghi, ma sotto la soglia della rilevanza e delle responsabilità politiche, che sono cose che si svolgono tutte in tempi brevi, con un consumo immediato di risorse sociali. Anzi, nel susseguirsi delle libere iniziative e nel variare frenetico di circostanze ed emergenze, la politica reale si svolge in tempi brevissimi. Solo per modalità organizzative molto ben pensate e fortemente difese, un lavoro politico può sostenere sforzi prolungati e quindi progetti di ampio respiro. Questo, in un certo senso, penalizza a priori i riformisti, e richiede siano eticamente e intellettualmente molto dotati per affermarsi come veri riformatori, riuscendo a vincere conservatori e liberisti, solitamente avvantaggiati dalle loro semplificazioni ideologiche di partenza, di più immediata credibilità, specie presso i gruppi sociali più attivi e meglio dotati di risorse culturali ed economiche.

Una tradizione politica riformista, storicamente necessaria per parlare di riformismo in senso forte e verificato, si ha in Inghilterra, come si è accennato; esiste da circa un secolo anche nei Paesi dell’Europa del Nord e baltica, che in Italia conosciamo pochissimo e peraltro vivono in condizioni di laboriosa e fortunata «marginalità» rispetto ai più noti travagli continentali. Riformismo è tendenza politica importante anche in Francia e in Germania, ma Napoleone III e Bismarck hanno assorbito e gestito in modo ben diverso dal riformismo le istanze di modernizzazione di queste grandi società in larga parte dell’Ottocento: per cui Francia, Germania, e anche i territori centro-europei e balcanici della vecchia Austria-Ungheria, conosceranno sì partiti socialisti importanti, ma non loro tradizioni di governo, durevoli e incisive.

 

Progetti e soggetti del riformismo

La connotazione e l’esperienza «governativa», che in certa misura è coessenziale alla tendenza riformista per realizzare riforme, di fatto possibili solo spendendovi autorità e potere, è, peraltro, così accreditata nella coscienza comune, che il termine di riformismo è largamente usato anche per connotare eventi storici che non conoscono né spinta dal basso né indirizzo di partiti riformisti, né quell’orizzonte liberal-democratico che sono propri del riformismo in senso forte. Il quale non scende affatto dall’alto, poiché si esercita con efficacia e stabilità, dalle istituzioni politiche costituite, solo dopo essersi impiantato e fatto conoscere dal basso, nella società, nel rispetto dei diritti di libertà di tutti, e nella promozione di parità sostanziali.

Non a caso si parla comunemente, ma per una analogia equivoca e politicamente distorcente, di un «riformismo di Principi illuminati», di un «riformismo cesaristico», di un «riformismo dall’alto», fin di un «riformismo conservatore». È indicativo che il vocabolario consultato in partenza (della lingua italiana e non di scienze politiche), dopo la definizione citata in apertura di questa nota, dia, come unico esempio dell’uso del termine, la frase: «il riformismo dei principi della seconda metà del Settecento». Che è cosa storicamente bella ed importante, ma appena lontana parente del riformismo politico in senso pieno, che dobbiamo abituarci a pensare solo in relazione ad esperienze collettive e democratiche.

Vi furono anche Papi riformatori della Chiesa, monaci riformatori di conventi e regole; vi sono stati Lutero e Calvino, con la Riforma protestante; e, intrecciata e contrapposta a questa, si è avuta pure una Riforma cattolica. Eventi storici di grande significato, ma che non ci aiutano a conoscere e costruire il riformismo come progetto politico laico, per tutti e interessato a ottenere la collaborazione di tutti: con novità di pensiero e azione, un metodo di proporre, comunicare, decidere. In una società democratica e partecipata, già solida, o in via di divenirlo: magari perché anticipata e promossa da gesti e discorsi dei suoi fautori, «riformisti» convinti.

Quel che fu detto dai rivoluzionari più rigorosi e credibili: «Non chi grida: Rivoluzione! Rivoluzione!, ma chi vuole i mezzi della rivoluzione è un rivoluzionario», è vero anche per il riformismo propriamente politico, oggetto di questa riflessione. Veramente riformista è solo chi vuole, con le finalità delle riforme, i mezzi, cioè le condizioni politiche per realizzarle.

In Italia stiamo avvicinandoci, se pure a fatica, a questa soglia di credibilità e di efficacia: il «progetto» va ancora arricchito di determinazioni e illustrato con inventività comunicativa; il «soggetto» che lo propone va reso finalmente protagonista delle scelte che contano: definizione dei programmi di governo, selezione dei candidati alla leadership e al Parlamento.

Il partito dei riformisti italiani se vuole farsi vedere e udire, deve sviluppare azioni intense in queste due direzioni: programmi puntuali e leader riconosciuti attraverso processi selettivi aperti.

Per una elaborazione programmatica adeguata sono indispensabili oggi, insieme a conoscenze «locali», attenzione e competenza internazionalistiche: sia per i contenuti, sia per l’orientamento. Un serio riformismo, nell’età della globalizzazione (realtà e dibattiti, responsabilità e confusioni), non può restare chiuso in orizzonti nazionali, e neppure solo europei. Le istituzioni da far crescere e funzionare sono, in primo luogo, l’Unione europea e l’Onu con la loro costellazione di enti settoriali: restare assenti da questi temi è restare nani in politica, e lasciare che giganteggino indebitamente gli interessi forti dell’economia e le emozioni, generose ma devastanti, dei movimenti che si gonfiano soprattutto per ipertrofia mediatica.

Quanto ai processi di selezione dei dirigenti politici, le coalizioni non possono più fare a meno, o di una investitura prevalentemente autoritario-finanziaria (il più motivato a far politica dei più ricchi: in Italia abbiamo Berlusconi a destra), o di una del tutto democratica-partecipativa (indispensabile per convincere e vincere da sinistra): cioè un democratico riformista che si imponga, per abilità di sintesi programmatica, capacità comunicative, attitudine alle necessarie mediazioni, in processi elettivi di tipo «primario», aperti a tutti i cittadini, e precedenti, almeno di un anno, le consultazioni politiche generali. Un leader lanciato, non dall’uso di risorse personali, ma da un grande processo collettivo: l’unica forma di ricchezza possibile ai non ricchi di famiglia.

Tale crescita di educazione politica riformistica comporta, per milioni di cittadini, un diverso e più realistico modo di pensare ed esercitare diritti e doveri della «base» e diritti e doveri della «dirigenza»: è su questo terreno che i progressi educativi, indubbiamente avvenuti per merito dei partiti della tradizione popolare, e molto notevoli per il passato, sono oggi insufficienti: occorre riuscire a farli ripartire nei modi oggi opportuni, con generosità e creatività, dentro e oltre le iscrizioni ai partiti.

 

Riformisti e rivoluzionari

A questo punto è importante introdurre la differenziazione, fin qui accuratamente evitata in questa nota, tra rivoluzione (comunista) e riformismo (democratico e socialista). L’ho evitata perché penso abbia fatto il suo tempo, dopo la fine fallimentare del cosiddetto «socialismo realizzato», oggi tanto meno istruttivo delle suggestioni e delle esperienze del cosiddetto «socialismo utopistico».

Tuttavia, dobbiamo restare consapevoli della vicenda storica quale si è svolta tra Ottocento e Novecento. La lentezza e l’approssimazione con cui i riformisti (nella stessa Gran Bretagna) hanno accettato la centralità del momento «politico», nutrito di consapevolezza costituzionale e volto ad assumere responsabilità di governo, fu scavalcata e come bruciata, agli occhi di moltissimi, dall’energia visionaria e molto attrezzata intellettualmente, tipica di Marx. Contro il riformismo a lui coevo, bollato di opportunismo o disprezzato come mero utopismo, Marx fece emergere una «linea» rivoluzionaria, nella quale il momento politico veniva assorbito in una teoria enfatizzante la violenza come suprema e definitiva secolarizzazione dell’assoluto, un tempo teologico e ora pienamente antropologico: materialismo storico, lotte di classe nella società, sfruttamento e alienazione nel lavoro, guerre nella storia, dominio e schiavitù nelle relazioni. Tutto è collocato all’interno di una interpretazione che si è creduta «scientifica», di filosofia, economia e storia: con una sintesi amplissima di elementi culturali, anche disparati e contraddittori (dalla tradizione ebraica alla criticità illuministica), ma piegati dentro una dialettica imponente, matrice e profezia della Rivoluzione e della sua asserita qualità creativa e di compimento.Il confronto con pienezza e certezza della rivoluzione comunista, annunciata «scientificamente» da Marx ed Engels nel corso dell’Ottocento, e realizzata nell’Urss di Lenin e Stalin con processi volontaristici e di ineguagliata durezza, a lungo ha fatto giudicare spregevoli, per opportunismo e pochezze, tutte le graduali conquiste riformistiche, da quelle inglesi a quelle socialdemocratiche tedesche, infette di «revisionismo»; e sorridere di quelle municipalistiche italiane. Nel vocabolario della lingua italiana cui ci siamo già riferiti, si recepisce, dopo l’accezione principale, una estensiva, riconosciuta spregevole, che è così definita: «dicesi di una politica che si limita a marginali riforme in un sistema sociale, senza modificarne le strutture: sterile riformismo». Quanto ha pesato il marxismo!

Il Manifesto dei comunisti, che ne è kerigma e didaché, è del 1848, e il fondamentale volume primo del Capitale è stampato nel 1867: una Prima internazionale (soprattutto di associazioni operaie), una Seconda (soprattutto di partiti socialisti) e una Terza internazionale (già comunista e leninista), ne discuteranno strategia e tattica di interpretazione e attuazione, anche dissolvendosi sugli scogli teorici e pratici incontrati.

Nel 1899 in questa grande discussione prende slancio e profondità il revisionismo di Eduard Bernstein, sul continente il maggior teorico di una correzione significativa del marxismo (nella cornice del quale tuttavia egli cerca di restare). È una storia molto complessa e ricca, anche se certamente non egemonica come hanno creduto i suoi sacerdoti ortodossi e non pochi dei suoi eretici. È un fatto sperimentato che, intorno al 1968, la vitalità utopica del socialismo marxiano manteneva le sue apparenze di verità totale per molti spiriti generosi e per stuoli di intellettuali; e la Rivoluzione godeva, unitamente alla «contestazione globale», di un credito incomparabilmente superiore di quello goduto dall’impegno riformista e dalle sue conquiste graduali.

Nell’Italia repubblicana, nonostante le scelte politiche e la prassi concreta del Pci fossero largamente socialdemocratiche e cautamente revisioniste e liberaldemocratiche anche su punti importanti di dottrina, il riformismo, per decenni, viene bollato come prassi opportunista, collaborazione rinunciataria degli obiettivi di classe. I comunisti italiani sanno di storia e salvano le intenzioni di Turati e compagni, ma lo condannano in quanto «il giudizio politico è sempre oggettivo; si basa sui fatti e non sulle intenzioni». Questo può essere condiviso, ma il comunista allora «normale» (iscritto o fiancheggiatore) sosteneva: «con il riformismo gli interessi proletari si subordinano a quelli di una borghesia conservatrice; la classe operaia perde indipendenza e unità e diviene una appendice dello stato borghese conservatore» (così si legge nella Piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo di Giulio Trevisani edita nel 1951).

La polemica comunista sui limiti del revisionismo socialdemocratico (di fatto vincente in Francia e Germania negli anni che sono stati detti della belle époque) esplosa sull’onda dei successi leninisti, non può essere archiviata, neppure oggi, con sufficienza e ironia. La violenza e il dominio non possono essere più interpretati ripetendo tesi e principi di Marx; e certo capitalismo e imperialismo non vengono superati da Lenin e Stalin, ma piuttosto assimilati, rovesciati di segno, nella ideocrazia sovietica: resta però che i conti, con essi, debbono essere fatti. Si tratta di uscire dal mito (antichissimo) della forza come creatrice esclusiva di storia, e di non vedere più nella guerra il principio ultimo di realtà. Se, con l’Urss, il socialismo scientifico realizzato si è progressivamente essiccato ed è crollato sotto il peso delle proprie insufficienze culturali e organizzative, altre illusioni ideologiche sono tuttora esposte ai pericoli e alle usure dei propri limiti. I propri errori sono, sempre più, più pericolosi di avversari «ideologici» che per paura giudicassimo fortissimi, mentre nulla è più forte dei problemi, che spesso (e sempre più) sono comuni, e solo con il diritto e gli accordi, il lavoro e la cooperazione, possono venire ridotti, e i guai che affliggono l’umanità, se non sanati, controllati.

I socialisti europei, nel 1914 erano, giustamente, pacifisti, ma il loro controllo delle situazioni politiche nazionali, e le tensioni dell’economia europea e mondiale quale si svolgeva con ben poche regole condivise, portarono alla vittoria di tutti gli interventisti: nazionalisti di destra o di sinistra, intellettuali avventuristi, burocrazie oligarchiche, industriali e mercanti senza troppi scrupoli, militari ambiziosi e sovrani lontanissimi dai loro popoli; anche patrioti onesti, ma di insufficiente dottrina e prudenza. La Grande guerra è stata levatrice, oltre che di troppi morti e di grandi dolori familiari, di nascite politiche destinate a pesare: la Rivoluzione sovietica nel ’17, la Rivoluzione fascista nel ’22, la Rivoluzione nazista nel ’33, sono eventi strettamente connessi alla prima guerra mondiale e alle sue conseguenze politiche e sociali.

Il nostro riformismo, proprio perché lacunoso e aurorale, non ci ha preservato, nel secolo breve e sanguinoso che abbiamo alle spalle, da realtà e miti della guerra e della rivoluzione. Né finora ha espresso finalità che ricapitolino le nostre esperienze storiche cumulative, impegnandole con generosità e acutezza nella dimensione globale e nella profondità di connessioni e vincoli in cui si svolgono le nostre vite reali, con i modi oggi abituali del lavorare, comunicare, conoscere, preparare le decisioni e realizzarle: come persone, famiglie, popoli, genere umano.

Anche il passaggio internazionalista più glorioso del riformismo britannico, il ritiro senza guerra dall’India, non ha avuto slancio sufficiente, né per superare il dato ivi tradizionale di una violenza religiosa che contrappone induismo e islamismo (anche il grande Gandhi moriva su questa frattura); né è stato vissuto dai contemporanei nel suo significato storico, appena ora in svolgimento di consapevolezze, dopo mezzo secolo di mistificazioni internazionali circa morte e trasformazione dei domini coloniali.

 

Riformismo e impegno politico

Sulla scena mondiale, globalizzata davvero, ma tanto poco e male governata; per la complessità crescente dentro la società reale, che è già ben oltre l’antico regime politico, presente in apparenza e reale di nudità come il Sovrano della favola mirabile, Riformismo è nome, per modestia e ragionevolezza, il più adeguato per indicare metodo e obiettivo dell’impegno politico nel tempo che è il nostro.

Come pensare di poter essere conservatori soddisfatti del disordine esistente, o illudersi che vivibilità di un ordine condiviso coincida con una libertà del tutto libera da regole riconosciute? Né crediamo più la Rivoluzione ci porti giustizia e felicità; e neppure possa riuscirci l’Evoluzione; non confidiamo nella Storia, come si è fatto troppo a sinistra; né nella Natura, come oggi ancora pare fare la destra.

Con impegno accettiamo di avere la responsabilità di decisioni libere e solidali e ci interroghiamo su fini e regole che sia opportuno riconoscere nei nostri ordinamenti; laicamente disposti ad accettare, dopo libero confronto, le decisioni della maggioranza, irrilevanti per l’etica ma legalmente vincolanti. Non a caso il riflessivo Bernstein predicava agli europei un ritorno a Kant da Hegel. E su questa strada, culturale e non politica, oggi possiamo proporci ulteriori viaggi, di straordinario interesse; in particolare, valorizzando in relazioni nuove le tradizioni fondative, spirituali e quindi anche religiose, delle grandi civiltà. Un mondo di conoscenze e di azioni che intreccino in modo pacifico antichità e novità, ciò che ci è vicino e quanto crediamo lontano.

Purché non lasciamo i doveri della politica, severissimi pur nella loro parzialità e limitatezza, sguarniti di attenzione popolare e personale, facendone padroni i peggiori degli uomini, pienamente consapevoli del ruolo enorme della politica; con la pericolosa possibilità di piegarla a proprio vantaggio. Se la cultura dei più la crede conquista ed esercizio di potere; come è da millenni e, purtroppo, largamente può essere ancora oggi. Mentre, per le acquisizioni del costituzionalismo e del riformismo, può divenire ed essere confronto per decidere regole e programmi, leggi e servizi irrinunciabili.

Il «cartello» dei riformisti italiani non ha solo il problema, comune del resto a tutti i partiti della coalizione, di mutare gli assetti interni ai partiti stessi per rafforzarvi capacità e identità coalizionale: ha anche un compito esterno, di fronte all’opinione pubblica, di rappresentare come opposizione parlamentare, competente e costruttiva, una vera alternativa al governo di Berlusconi per il prossimo giro.

Nel fare questo l’Ulivo e le sue componenti non possono non incontrare i problemi – italiani, europei, internazionali – che già marciscono nei ritardi di tutti, governi e gruppi parlamentari: si definiscano popolari o socialdemocratici o liberaldemocratici, nel parlamento di Strasburgo; riformisti o neoliberisti, nell’azione modestissima dei diversi governi nazionali. Una enorme mole di lavoro educativo ci attende, per passare, da una democrazia ricca ma formalistica, telecratica, mistificatrice e fittizia (in Italia moltissimo, ma gli Usa non scherzano, e ogni Paese d’Europa ha al riguardo i propri guai), ad una democrazia sostanziale, che rispetto a quella di oggi sia più ricca di radicalismo etico, di parità culturale, di razionalità politica. Per ciascuno di questi valori, il riformismo europeo del XXI secolo ha passaggi da compiere, che non possono fallire senza danni gravissimi. E che dunque vanno preparati, proposti, esercitati, in proporzione alle dimensioni globali e alla intensità molecolare dei problemi già sulle nostre spalle e sotto i nostri piedi.

«Il Mulino», che è già rivista italiana di semisecolare appartenenza al fronte dei riformisti, potrà e vorrà recare un proprio contributo, originale per consapevolezza storica e analisi dei nodi di oggi, all’agenda dei riformisti italiani ed europei?

 

[Questo articolo è uscito sul numero 5/2001 del «Mulino», nella rubrica "Lessico di mezzo secolo", in occasione del cinquantesimo della rivista]