Si può riformare l’amministrazione italiana? E cosa dovrebbe fare il governo Draghi per realizzare questo «storico» obiettivo?
Dico «storico» perché non c’è stato un solo periodo nella storia dell’Italia unita in cui questa riforma non sia stata invocata, promessa, progettata; e io dico anche in parte messa in atto, sebbene con risultati mai definitivi anzi spesso deludenti. Successe alla fine dell’Ottocento, quando Crispi rifondò lo Stato ereditato dai successori di Cavour immettendovi robuste competenze tecniche (statistici, ingegneri, esperti di bonifiche, medici, diplomatici di tipo nuovo); poi ancora agli inizi del Novecento, quando Giolitti e Nitti «inventarono», creando l’Ina, il prototipo di quelli che sarebbero stati gli enti economico-finanziari poi proseguiti nella catena degli «istituti Beneduce» (dal nome del loro ideatore, poi artefice dell’Iri); accadde con il primo fascismo (riforma De Stefani, 1923), e poi nel dopoguerra repubblicano, con il poco fortunato Ufficio per la riforma burocratica; quindi ancora negli anni Sessanta, quando nel centrosinistra si vagheggiò una amministrazione nuova per la programmazione; e infine nel 1980 (Massimo Severo Giannini), nel 1993 (Sabino Cassese), nel 1996-2001 (Franco Bassanini); e se vogliamo – per quanto meno organicamente – coi tentativi successivi (Brunetta, Madia). Una lunga serie di illusioni: in genere finite nella sconfitta dei riformatori e nell’assorbimento burocratico dei loro progetti. Ciò non vuol dire che in 150 anni e più di storia l’amministrazione sia rimasta immobile. È cambiata, ovviamente: ma caoticamente e senza bussola. Restando ancorata a performance via via rivelatesi sempre meno soddisfacenti, mai all’altezza della domanda posta dallo sviluppo della società italiana.
Perché oggi, nel 2021, questa storia di sostanziali fallimenti potrebbe mutare di segno? Per rispondere a questa domanda bisogna rifarsi a una battuta felice di Carlo Azeglio Ciampi, nel frangente fatidico dell’avvento dell’euro. Disse l’allora ministro del Tesoro, futuro presidente della Repubblica, parlando della traballante finanza italiana degli ultimi decenni: «L’Europa ci obbligherà a essere virtuosi».
Già, il fattore Europa, cioè il condizionamento esterno. Una costante storica: come nel 1861, quando gli equilibri europei e il gioco delle grandi potenze abilmente sfruttati da Cavour realizzarono l’altrimenti irrealizzabile unità d’Italia; come nel dopoguerra post-fascista, quando Piano Marshall e fattore America generarono il quadro della ripresa e del miracolo economico. In Italia le riforme vere vengono sempre dal fattore esterno.
Dunque un primo punto fermo: la riforma dell’amministrazione «ce la chiede l’Europa», a rischio altrimenti di restare in coda al processo di ripresa che seguirà la grande crisi. Ma che tipo di riforma dovremmo mettere in cantiere, con quali obiettivi finali, con quali tempi di realizzazione, contando su quali risorse? Ecco il punto cruciale che Draghi dovrà subito affrontare.
Vi sono, a questo proposito due fondamentali premesse. La prima è che una riforma vera, cioè una radicale trasformazione dell’amministrazione italiana così come si è storicamente stratificata nel corso della sua storia remota e recente, richiede ben più di un piano elaborato da sia pur preparatissimi scienziati dell’organizzazione. Il problema amministrativo è infatti radicato in un complesso di cause strutturali (intendo storiche, sociali, economiche, culturali). Quali sono i difetti capitali del sistema attuale? Li elenco senza la pretesa di dar loro un ordine tassativo: la frammentazione delle (al plurale) amministrazioni (l’administration en miettes, per citare il titolo di un libro francese); la sovrapposizione nel tempo e la lunga durata di più modelli amministrativi quasi mai tra loro coerenti; la difettosa organizzazione dei rapporti tra amministrazioni centrali e periferiche e segnatamente l’anomalia di un sistema regionale rimasto a metà del guado, né federalista né collaborativo con lo Stato centrale; la cultura ancora eminentemente giuridico-formalista delle burocrazie statali e di quelle regionali e locali (pochi gli economisti, scienziati dell’organizzazione, esperti in management); la composizione del personale: anagraficamente anziano, in prevalenza meridionale, formato per applicare regole e non per risolvere problemi; l’eccesso di controlli, spesso preventivi e quasi sempre solo formali; l’assenza di una dirigenza autonoma, assoggettata attraverso lo spoils system al perenne ricatto del favor del politico di turno.
A ciò bisognerebbe aggiungere una serie di altri difetti radicati, il primo dei quali è certamente la pessima fattura delle leggi, derivante a sua volta dalla loro eccessiva moltiplicazione, dalla difettosa redazione governativa e parlamentare e infine dalla assenza di testi unici, di semplificazioni normative, di riordinamenti, di radicali pulizie della lingua vetusta e incomprensibile del legislatore di ieri e (ahimè) di oggi.
Riformare un tale groviglio di problemi, avrebbe ironizzato il generale De Gaulle, è quel che si dice un vaste programme. Che andrà affidato a un’opera di lungo o almeno medio periodo: e qui si pone la questione cruciale: la latitanza di una classe dirigente (e segnatamente politica) che dovrebbe perseguirlo, questo programma, nel corso degli anni; in modo bipartisan, senza disfare a ogni nuovo governo quello che ha fatto il precedente per riprendere da un’altra parte a cucire l’ordito appena disfatto (il complesso della tela di Penelope).
Dunque la questione amministrativa è eminentemente politica e come tale andrebbe posta al centro dell’agenda della pubblica e preservata dai suoi ondeggiamenti continui. Luisa Torchia, in un suo intervento recentissimo, ci ricorda la sprezzante definizione che un politico pure non sprovveduto come Amintore Fanfani diede nel secolo scorso del «Progetto Ottanta» elaborato dalle «teste d’uovo» di Giorgio Ruffolo: «un libro dei sogni». Ecco, sarebbe bene evitare oggi di ripetere l’errore di Fanfani.
Ma allora cosa si può fare subito, profittando della irripetibile occasione offerta dall’emergenza? Dicevano i vecchi socialisti ai tempi di Turati, «fare le riforme che si possono far subito». Provo a elencarle, dunque, queste riforme possibili:
- Formulare un programma chiaro, ben strutturato e non chilometrico, articolandolo in obiettivi generali e in altri parziali (di progressiva attuazione); tempi certi di realizzazione, risorse umane e economiche adeguate, valutazione costante e eventuale correzione dei risultati;
- affidarne la guida e il quotidiano monitoraggio a un gruppo di testa coeso, non sovrapposto ma interno alle amministrazioni, selezionando con procedure rapide i migliori tra i tanti che popolano i piani alti dei ministeri (ce ne sono, ad onta delle sciocche polemiche contro la burocrazia in quanto tale); affidare a questo gruppo di testa, opportunamente integrato con dirigenti delle Regioni e con esperti esterni, la guida quotidiana del funzionamento del sistema amministrativo per almeno due anni; curare che del team facciano parte tutte le competenze che servono, e non solo esperti di diritto;
- avviare contestualmente – come si fece nel 1993 a iniziativa dell’allora ministro Cassese – una veloce indagine sui processi di decisione, sottoponendo al vaglio degli analisti leggi, norme di attuazione, procedimenti amministrativi, format e contenuti degli atti; e poi attuandone una massiccia delegificazione e semplificazione (siamo un Paese dove per aprire una attività qualunque occorre una sequenza interminabile di autorizzazioni in capo a soggetti diversi);
- assumere personale, già che siamo fortunatamente in una fase favorevole per farlo (è già in atto un considerevole turn over generazionale); ma non col sistema solito delle «infornate» e dei «concorsoni», bensì partendo dalle necessità: di che tipo di funzionari abbiamo bisogno? Per fare che cosa? Con quali requisiti? Un punto fondamentale sarebbe la riforma degli attuali concorsi, con l’introduzione di ben calibrate prove pratiche a correggere l’impianto ancora troppo teorico della selezione; un altro punto quello di mescolare le professionalità, evitando l’attuale monopolio giuridico;
- creare quello che Sabino Cassese, sul modello inglese, ha più volte chiamato una fast stream per la dirigenza, cioè una corsia preferenziale dove posizionare i migliori giovani prodotti dalle università consentendo loro un percorso accelerato, che ne faciliti in tempi ragionevolmente più brevi l’accesso alla dirigenza;
- e infine, quanto alla dirigenza, vagliarla, valutarla in modo non formale, mobilizzarla negli incarichi più di quanto oggi non avvenga (per creare i «generalisti» oggi mancanti); ma al tempo stesso liberarla dalle briglie della politica, riducendo a poche posizioni di vertice l’attuale meccanismo di ricambio (lo spoils system, come impropriamente è chiamato).
Diceva Massimo Severo Giannini che qualunque processo di riforma deve seguire tassativamente una successione logica: partire dalle funzioni; proseguire scegliendo il modello organizzativo più utile a realizzarle; e infine – ma solo infine – selezionare il personale più adatto per quelle funzioni e quell’organizzazione. Sarebbe un buon viatico per chi si accinge alla riforma.
A questa piccola ma non perciò irrilevante lezione di metodo si potrebbero aggiungere due raccomandazioni.
La prima concerne il contesto della riforma, che è e deve essere quello dell’Europa di oggi e, soprattutto, di domani: un «contagio» (una volta tanto non pandemico) su scala europea sarebbe quanto servirebbe per porre le basi del futuro. In fondo grandi processi di integrazione culturale sono già in atto da almeno quindici anni. Se si parla ormai di un diritto compiutamente europeo, di una legislazione di fonte europea, di funzioni pubbliche delegate dagli Stati membri all’Europa, perché non si dovrebbe mirare a introdurre nei sistemi amministrativi nazionali istituti e prassi di marca europea?
La seconda raccomandazione è quasi superflua, perché è già nell’agenda del governo Draghi, e riguarda la digitalizzazione. Non però vista come una semplice modernizzazione dei mezzi del lavoro (come avvenne quando negli uffici di Monsù Travet fu introdotta la prima macchina da scrivere) ma come l’avvento della razionalizzazione stessa del lavoro d’ufficio (o fuori d’ufficio, guardando allo smart working). Digitalizzare non è solo lavorare diversamente, ma pensare in modo nuovo. Ed è di questo, in definitiva, che la nostra amministrazione ha più bisogno.
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