I terremoti sono come le guerre. Lasciano dietro di sé cumuli di macerie. E, come le guerre, lanciano una sfida che si può perdere o vincere, la sfida della ricostruzione. Anche ora, nel caso del terremoto che ha colpito la pianura padana, si tratta di pensare a ricostruire. Dopo la prima fase, quella dell’emergenza, quando occorre dare un riparo a tutti coloro che vivevano in costruzioni rese inagibili, la seconda fase è forse la più delicata. Bisogna trasformare le tende in insediamenti temporanei in attesa della ricostruzione. È la cosiddetta “fase dei prefabbricati”, spesso graziose villette mono o bifamiliari, ammassate in uno spazio il più delle volte angusto, dotate comunque di qualche confort. Tutto bene se l’insediamento sarà effettivamente temporaneo, se il processo di ricostruzione, tra progettazione, finanziamento e realizzazione non durerà in eterno. Perché è in questa fase, quando molti abitanti vivono ancora negli insediamenti temporanei, che si decide il volto della comunità ricostruita.
In alcuni casi, è stata adottata una strategia della ri-localizzazione. Soprattutto nel Belice, dove sono state ricostruite “altrove” Salaparuta, Poggioreale e Gibellina, ma anche in Irpinia, dove la stessa sorte è toccata a Conza della Campagna. Anche in quest’ultimo caso non si può escludere che qualcuno suggerisca o elabori progetti di urbanizzazione e di edilizia residenziale in qualche area esterna dove trasferire la popolazione che ha perso la propria abitazione. In pochi mesi, come il caso dell’Aquila insegna, si possono costruire nuovi quartieri, fornire alloggi “chiavi in mano”, dotati di cucine moderne, bagni, docce, televisione (naturalmente) e accesso a internet e magari anche un parco giochi e una piscina. Eppure, a circa tre anni dalla consegna delle prime case ai terremotati d’Abruzzo, mi piacerebbe sapere che cosa ne pensano gli abitanti. L’entità delle distruzioni, le condizioni economiche, le tradizioni amministrative dell’area oggi colpita e, soprattutto, lo stato dei conti pubblici in questa fase storica lasciano prevedere che non ci saranno le condizioni per una “nuova Irpinia”, ma neppure per un “nuovo Abruzzo”. Non solo i soldi non abbonderanno, ma la cultura civile e politica di questa parte d’Italia, l’ethos di una popolazione abituata a fare affidamento sulle proprie forze, dovrebbero essere antidoti efficaci contro i rischi di spreco. Dopo la gestione della prima emergenza, i sindaci (con il sostegno delle regioni interessate) sapranno prendere in mano la guida del processo di ricostruzione, per resistere alle offerte che i signori del mattone cercheranno anche in questo caso di avanzare. La prima responsabilità dei leader locali è infatti quella di non lasciar passare troppo tempo prima di presentare una credibile road map per la ricostruzione. Se non può essere ancora una previsione, sia almeno un auspicio; ma non c’è dubbio che Mirandola e gli altri comuni colpiti sceglieranno una loro via tenendo conto anche di che cosa ci ha insegnato la storia recente di questo Paese.
Su questi temi l’autore ha in preparazione un articolo esteso che uscirà sul numero 4/2012 della rivista “il Mulino”.
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