Quella che segue è la narrazione di un buon esempio di politica pubblica. Abbiamo scelto il titolo “ribaltamenti” perché il percorso dei laboratori di co-progettazione territoriale delle azioni di contrasto all’abbandono scolastico e alla povertà educativa – promossi e coordinati dall’Amministrazione comunale di Napoli – si è assunto la responsabilità di provare a “ribaltare” prospettive, atteggiamenti e canoni tipici della pubblica amministrazione.Iniziando dal rivedere la stessa idea di governo pubblico, uscendo da impianti “dirigisti” o legati, al contrario, alla sola erogazione di risorse economiche, e invece proponendo il Comune come soggetto attivatore di programmi e interventi integrati, in grado di fare lavorare insieme tutti i diversi soggetti, a cominciare dalla scuola, che hanno una responsabilità diretta o indiretta sulle carriere scolastiche di alunne e alunni.
Comunità e attori sono stati vissuti così non solo come destinatari finali delle politiche e degli interventi, ma anche come soggetti attivi nella costruzione di quelle stesse politiche e di quegli stessi interventi: la co-progettazione si è sviluppata come spazio di protagonismo e partecipazione trasversale alle diverse fasi della programmazione.
Più di sfondo si è proposto un ribaltamento anche nelle modalità di guardare ai contesti di intervento, mettendo al centro la ricerca non solo delle mancanze ma anche delle risorse. Per produrre cambiamento non ci si deve accontentare della realtà ma saper dissodare e fare emergere quella “bella presenza” che spesso rimane nascosta nelle storie di vita, scolastiche e familiari, di tanti giovani “scartati” che vivono in territori narrati prevalentemente attraverso la loro fragilità. Con quest’ambizione ci si è mossi, trovando un equilibrio tra la cura dei disagi e la valorizzazione di competenze e desideri, per restituire riconoscimento alle aspirazioni di tanti giovani privati non solo di futuro, ma della stessa possibilità di cittadinanza.
Insomma, un percorso, quello dei laboratori, in cui l’ancora e allo stesso tempo la bussola dell’integrazione tra pubblico, famiglie, organizzazioni del civismo attivo e dell’impresa sociale, alunne e alunni delle scuole pubbliche è stata la “cessione di potere” come chiave per superare i limiti e le incapacità di un rapporto che spesso non riesce ad andare oltre la sperimentazione, l’offerta di progetti ma quasi mai di servizi, la precarietà e le debolezze, in termini di reale impatto sui fenomeni, delle risorse diffuse a pioggia, raramente innestate dentro a una lungimirante programmazione pubblica.
La scuola, per dirla con Paugam, è il luogo extrafamigliare in cui l’individuo fa esperienza degli altri in termini di partecipazione elettiva e di riconoscimento istituzionale, luogo di legami multipli e di appartenenza al sistema dei diritti e doveri civili, politici e sociali di cui egli è riconosciuto titolare quale cittadino sovrano.
Nel disarticolarsi progressivo dei legami sociali a seguito dell’impoverimento, ossia a causa della combinazione di diverse cause di esclusione sociale degli individui (povero, disoccupato, straniero, donna ecc.), la scuola ha mantenuto un ruolo centrale quale attore primo nella quotidiana costruzione di pratiche concrete di accoglienza, convivenza e inclusione: perché le scuole sono rimaste tra le poche istituzioni che hanno conservato una relazione con le aree di popolazione più affaticate, coinvolte in situazioni di maggior svantaggio e degrado socioeconomico e culturale; e anche perché gli istituti scolastici sono abitati da figli e figlie di tutte le componenti che vivono sui territori più complessi: ultimi e primi; ricchi e poveri; italiani e con back ground migratorio; figli di persone che vivono nella legalità e figli di persone coinvolte in situazioni di devianza e criminalità.
Ma la scuola non può farcela da sola e con troppa superficialità, nelle retoriche dominanti, viene additata ora come colpevole di qualsivoglia fallimento, inadeguata, incapace, ora come nevralgica leva di ogni cambiamento. Negli anni, anche per questi motivi, è diventata oggetto di un’insistente opera di riforma e di adattamento a nuovi statuti politici e amministrativi, nonché di politiche di investimento per il contrasto all’abbandono scolastico e al fallimento formativo che, nella convinzione di far fronte alle emergenze con ricette generaliste, non hanno conseguito i risultati sperati. Spesso, attraverso un metodo per così dire “additivo”, si è ritenuto che fosse necessario aggiungere e non trasformare, e semmai favorire l’adesione acritica a tutte le possibili novità proiettando la scuola “in una turbinosa accelerazione e in un’esaltante competizione”: tutto questo mentre, di fronte all’aggravarsi della crisi e dei modelli di sviluppo delle società occidentali e del mondo globalizzato, al moltiplicarsi dei rifiuti, delle perdite, dei conflitti, delle minacce, non ci sono risposte credibili sul piano della politica.
[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 73-83, è acquistabile qui]
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