È ormai iniziata l’ultima settimana di campagna elettorale che ci separa dalle cosiddette primarie del Partito democratico (che, com’è stato più volte spiegato su queste pagine, vere primarie non sono). Oggi si terrà l’unico confronto televisivo fra i candidati segretari previsto in questa campagna, e possiamo con certezza sostenere che non sarà certo un evento. La consultazione di domenica 3 marzo resta infatti circondata da un alone di indifferenza che nulla ha a che vedere con quelle che l’hanno preceduta.
A più di due anni dalla sconfitta nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e a un anno dalla disfatta alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, il Pd è ancora soprattutto un partito orfano del suo ultimo leader, incapace di elaborare il lutto che lo ha colpito. I candidati in lizza per la carica di segretario nazionale si distinguono sulla base di differenze ben poco chiare, che sembrano assumere un significato particolare soprattutto in relazione al grado di continuità o discontinuità rispetto alle scelte che contraddistinsero la leadership renziana. Giachetti è il candidato che si riconosce in maggiore continuità con quell'esperienza, Zingaretti è quello che se ne distanzia di più, Martina pare trovarsi nel mezzo. E questo persistente cordone ombelicale, che non si riesce a spezzare, nei confronti di Renzi resta il principale limite del Pd. Una sorta di “don’t think of an elephant” che impedisce al partito di guardare avanti, al proprio futuro, senza perdersi nel vuoto che si è ormai creato dietro le spalle: vuoto di idee, progetti, cultura politica, organizzazione, gruppi dirigenti e leadership.
Molti autorevoli osservatori hanno segnalato come la campagna elettorale in vista del voto del 3 marzo sia caratterizzata da una totale latitanza di una discussione sulla forma partito. Capire come il Partito democratico possa riorganizzare la sua presenza sul territorio e fra le forze vive (se ce ne sono ancora) della società italiana è certamente un punto che meriterebbe maggiore attenzione da parte dei candidati. Anche se la discussione sulla forma partito, vera ossessione costitutiva di una prospettiva (questa sì) autenticamente di sinistra, non può intendersi come la panacea per tutti i mali. Con le ultime elezioni politiche abbiamo assistito alla schiacciante vittoria di un partito digitale la cui piattaforma informatica per la selezione delle candidature e le scelte di policy è gestita da una società di consulenza privata (cosa che ai tempi di Berlusconi avrebbe indotto a gridare allo scandalo, mentre oggi sembra lasciare quasi tutti indifferenti) e all’affermazione di un partito che, viceversa, risponde a un modello che sta fra il partito degli amministratori locali (la principale componente degli eletti della Lega di Salvini in Parlamento) e il partito leninista.
Due soluzioni organizzative molto diverse fra loro, le cui capacità di performance, nel corso del tempo, si sono anche significativamente differenziate (come stanno a dimostrare le recenti elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna, sebbene oggi questo non sia il solo motivo a fare la differenza fra una Lega con il vento in poppa e un M5S relegato a una funzione ancillare della Lega stessa). Due estremi di un ipotetico spettro di variazione della forma partito, rispetto al quale molti elettori progressisti e democratici si chiedono dove il Pd intenda in futuro collocarsi. Un tema che però è del tutto assente dal dibattito di queste primarie, a significare il totale disinteresse dei tre candidati rispetto alla questione cruciale dell’organizzazione dell’iniziativa politica.
Tuttavia, come si diceva, la discussione sulla forma partito non è tutto. Un altro fondamentale tema rispetto al quale il confronto nel corso di queste settimane di campagna elettorale è stato deficitario riguarda la proposta politica e di riforme per il Paese. Un terreno sul quale non è sufficiente esprimersi in termini di continuità o discontinuità con i governi a guida Pd Renzi e Gentiloni. Perché, senza fare di Renzi un alibi, la sonora sconfitta del Pd alle ultime elezioni politiche non può che essere ricondotta al fatto che il progetto di riforme proposto al Paese è stato drammaticamente rifiutato dagli elettori. E non solo per limiti oggettivi della leadership e dell’azione di governo di Renzi e del Pd, ovvero perché Renzi e il Pd siano stati protagonisti di una sorta di riformismo dall’alto. Ma perché ampi settori del nostro Paese non intendevano, e ancora oggi non intendono, in alcun modo favorire il cambiamento attraverso un percorso di riforme.
Il responso delle urne che ha portato alla nascita del governo giallo-verde porta in modo particolare il segno di un Paese che chiede forme di tutela e sicurezza, non riforme. Sappiamo quanto chiedersi quale proposta di riforme avanzare per il Paese, in un Paese che non vuole le riforme, sia un’impresa difficile. Però questo è il terreno sul quale si dovrebbero confrontare Zingaretti, Martina e Giachetti. E con tutta la simpatia che possiamo provare per loro, il fatto che nessuno dei tre ci tenti è la misura più manifesta ed evidente dei limiti che ciascuno di essi ha rispetto al faticosissimo incarico che l’attende, qualora vinca le primarie.
["Questioni Primarie" è un progetto di Candidate & Leader Selection e dell'Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell'Università di Torino, realizzato in collaborazione con rivistailmulino.it. In vista delle primarie del Pd, ogni settimana riprendiamo contributi pubblicati nell'ambito dell'iniziativa tutti disponibili anche in pdf sul sito di Candidate & Leader Selection.]
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